La Fenice raddoppia. Con Traviata e Simon Boccanegra
Il 22 e il 23 novembre si è svolta una doppia inaugurazione di stagione al Teatro La Fenice, la fondazione lirica considerata la più efficiente da un’inchiesta della rivista “Classic Voice” basata su una serie di indicatori quantitativi (numero di recite, affluenza di pubblico pagante) nonché da un sondaggio con critici musicali italiani e stranieri. Dal nostro inviato Giuseppe Pennisi.
Lo avevamo anticipato, su Artribune due anni fa, commentando il “nuovo corso” del Teatro La Fenice e il 22 aprile 2014 avevamo riassunto una seria di studi economici da cui si desume come l’istituzione sia una risorsa essenziale per Venezia: 69 milioni di euro in termini di spesa attribuibile, 256 euro per ogni fruitore (visitatore o spettatore del teatro); 50 milioni di euro in termini di impatto complessivo (183 euro per ogni fruitore); 12 milioni di euro in termini di impatto fiscale; quasi mille unità di lavoro come stima dell’impatto occupazionale.
La doppia inaugurazione ha un significato perché una parte del pubblico è straniera e non affronta un viaggio sino alla Laguna per un’unica serata. Sia Traviata (nel 1853) sia Simon (nel 1857) debuttarono a La Fenice; per il centenario del debutto della prima delle due opere venne allestito, nel 1953, un magnifico allestimento di Nicola Benois (che ancora circola in teatri di tradizione) con Maria Callas come protagonista. Alla riapertura del teatro, dopo l’incendio e la ricostruzione, nel 2004 Traviata venne scelta come titolo inaugurale in un nuovo, e allora controverso, allestimento di Robert Carsen (con scene e costumi di Patrick Kinmoth). Fu un enorme successo, nonostante le polemiche di qualche critico ultra-tradizionalista. Da allora la produzione viene replicata dieci volte l’anno; la sera del 23 novembre, con una cena nella Sale Apollinee del teatro con tanto di torta e candela, se ne è celebrata la 100esima replica; ben 35 repliche sono previste nella stagione 2014/2015, in quanto lo spettacolo è molto richiesto dal pubblico che verrà a Venezia nel corso del viaggio nel Norditalia per Expo. La biglietteria è già attivissima.
Anche per tener conto di un pubblico straniero (Venezia ha 55mila abitanti ma 27 milioni di turisti l’anno), La Fenice è il solo teatro italiano che adotta un sistema di semi-repertorio: allestimenti che possono durare diversi anni e che possono essere alternati con altre opere (la cui messa in scena non richiede complesse attrezzature scenografiche) cambiando tre titoli la settimana. Ciò è possibile senza le costose macchine sceniche de La Scala, di Firenze Opera e del Carlo Felice di Genova. Le videoproiezioni d’autore hanno rapidamente soppiantato elaborate scene costruite. Nonché, soprattutto, fornito un’utile e proficua collaborazione tra arti visive contemporanee e arti sceniche. La Scala e il nuovo Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma stanno andando verso il semi-repetorio. Dovrebbe farlo soprattutto da Firenze che, al pari di Venezia, se non attira un elevato numero di turismi non potrà alimentare il nuovo teatro (e gli altri).
Ma andiamo ai due spettacoli inaugurali. Originale la drammaturgia di Simon Boccanegra: non solo regia e scene (Andrea De Rosa), costumi (Alessandro Lai), luci e proiezioni (Pasquale Mari) ma l’intera lettura drammatica del testo. Nel prologo, i protagonisti sono giovani, sui venticinque anni d’età, con l’eccezione di Fiesco che sfiora la cinquantina. Nei successivi tre atti, dopo un quarto di secolo dalle vicende del prologo, Boccanegra e Paolo Albiani sono cinquantenni ancora in grado di desiderare donne. Fiesco/Grimaldi è sui settant’anni (e guarda la vita con distacco e serenità), mentre Gabriele Adorno e Maria/Amelia non hanno ancora trent’anni. Non è essere pedanti, ma avere finalmente portato l’età dei protagonisti alla verosimiglianza scenica, soprattutto dopo che poche settimana fa alla Scala abbiamo visto due baritoni di settantatré e circa ottant’anni alternarsi del ruolo di Boccanegra. La scelta drammaturgica rende esplicito l’intrigo che porta un giovane a lasciare il tanto amato mare per entrare nella vita pubblica. Grazie alla scena unica e ai video, il mare è sempre presente nelle cinque scene dell’opera. E con esso la costa ligure. Abili giochi di luce ne mostrano le onde, i colori del tramonto e dell’alba. Un unico elemento scenico diventa di volta in volta il Palazzo dei Fieschi, la villa dei Grimaldi, la sala del Gran Consiglio, i saloni del Palazzo Ducale, gli spalti del porto di Genova. Senza mai perdere di vista quel mare da cui Simone è stato indotto a partite e dove agogna tornare.
Myung-Whun Chung coglie appieno l’ambiguità della partitura, bifronte in quanto rivolta da un lato verso il passato del melodramma tradizionale e dall’altro verso l’avvenire del Musikdrama. La concertazione è serrata (l’opposto di quella dilatata di Barenboim). Con accento sui chiaro-scuri; magnifici i violoncelli e i fiati, principalmente i fagotti. Tra le voci, alcune vecchie conoscenze ascoltate in Simon negli ultimi anni. Giacomo Prestìa è ormai il Fiesco/Grimaldi di riferimento sia in Italia sia all’estero, così come Julian Kim è uno dei rari Paolo Albiani in grado di mostrare come il personaggio sia complesso quanto quello di Jago in Otello. Francesco Meli sta gestendo molto bene la propria vocalità, ora leggermente brunita e spessita: anche grazie alla sua prestanza fisica, è un Gabriele Adorno da manuale. Maria Agresta: è quella che Verdi chiamava “soprano assoluto” in grado di transitare agevolmente dal lirico dei duetti del primo atto alla vocalità drammatica del quadro del Gran Consiglio e del resto dell’opera. Il protagonista eponimo è Simone Piazzola. Non ha ancora trent’anni e, credo, sia al debutto nel ruolo. Ci offre un Simone credibilissimo nella sua sofferta maturazione dai venticinque ai cinquant’anni. Imponente nel grande arioso della scena del Gran Consiglio, tiene con precisione la zona medio acuta senza svettare sino al dolcissimo diminuendo (e pianissimo) finale.
L’allestimento di Traviata firmato da Carsen pone la vicenda ai nostri giorni in un mondo pre-crisi dove impera il denaro; le stesse foglie, che svolazzano nel bosco del primo quadro del secondo atto, sono banconote. In questo mondo Violetta è una escort che vuole però lasciare la professione. ll bosco (presente non solo nel secondo ma anche nel terzo atto) simbolizza la ricerca di un’esistenza fresca e pura a cui anela e che non le viene concessa. Alfredo è un “bamboccione” che matura tardi, solo quasi di fronte alla fine della donna che ama. Suo padre è dominato da una tradizione perbenista e conservatrice del milieu; anche lui solo alla fine acquista consapevolezza del danno commesso separando i due giovani. Chi li contorna è l’Europa “da bere” all’inizio del XXI secolo.
La produzione richiede dettagli molto precisi e una recitazione di classe. I due protagonisti, poi, devono essere giovani ove non giovanissimi. L’allestimento regge bene gli anni e promette di restare in scena per almeno un altro lustro se non due. Un cast giovane era alla 100esima replica. In buca, Diego Matteuz (classe 1984) ha concertato con calore dando l’accento sulle tinte melanconiche. La protagonista era Francesca Dotto (classe 1987) alle prese con un ruolo impervio che richiederebbe, a rigor di logica, due soprani: uno lirico di coloratura sino alla metà del secondo atto (Amami Alfredo!) e uno drammatico, con vocalità di maggior spessore, nel resto dell’opera. Francesca Dotto è cresciuta nel corso dello spettacolo, regalando un perfetto terzo atto. Renato Coltelazzi (classe 1980) ha dato buone prove in fondazioni liriche e teatri di tradizione, ma la sera del 23 novembre è parso in difficoltà con il registro acuto. Perfetti tutti gli altri nei rispettivi ruoli, che hanno sovente cantato le relative parti a La Fenice.
In breve, un doppio successo per iniziare quella che si annuncia come una grande stagione.
Giuseppe Pennisi
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