Scambi di scena. Cripto-intervista con lo scenografo Maurizio Zanolli
“Scambi di scena” ospita Maurizio Zanolli, pittore e scenografo. Da oltre quarant’anni vibra la sua arte sul confine che separa parola, gesto e immagine. La sua opera racconta di universi metafisici abitati da creature misteriose, i suoi racconti sono fenditure nell’inconscio, le sue scenografie paesaggi interiori rovesciati sui palchi di mezzo mondo. Lo abbiamo incontrato nella sua casa sulle rive selvagge del fiume Adige.
Perché un pittore diventa scenografo? Quali sono stati i modi e i tempi del tuo avvicinamento alla scena?
Il corpo è contenitore dei vasi vuoti con relativo nome che in vita cerchiamo di riempire. Il tentare di riempire tali vuoti si chiama con i nomi delle passioni. Ho la passione del dipingere, cosa sto cercando di riempire? Probabilmente ho da sempre la psiche permeata da un infinito esilio di forme e colori, sono orfano degli amici di chissà quali tempi. Tornano i lontani amori nei quadri sui cavalletti? Oppure tornano più volentieri se irretiti dalle mie mosse in scena? Sì, qualsiasi movimento riguarda la passione, ovvero un vuoto che solo nell’involucro ha nome; è cercare il corpo mancante che ci appassiona. Vita che vuole vita, in un ambiente, cioè in scena.
La differenza tra una scenografia già fatta e quella eseguita dal vivo è anche il tuo corpo. Ti senti addosso la simbologia e lo statuto dell’artista?
Andirivieni fra corpo che fa davanti a mille occhi in piazza e la solitudine degli occhi sulla tela di casa, una posizione esalta l’altra. Sono i due emisferi cerebrali che si sfregano avanti e indietro. A sinistra nelle mani gli orizzonti si aprono, a destra tra le dita è un lavoro cristallino. Piede destro, piede sinistro: ma, non si fanno marciare così i soldati per cancellarli a se stessi? È un monito a rinascere.
Parliamo del tempo della visione. La scena dal vivo richiede allo spettatore un tempo di visione diverso da quello di un’opera “incorniciata”. Ci spieghi questa differenza?
In intimo sappiamo tutti che l’opera d’arte è il vivo, non il prodotto del vivo (certamente l’energia permane ovunque); la scena mondo è un messaggio di ritorno: non ci accorgiamo mai che ciò che ci contiene corre all’incontrario nostro, e che è avviso di quanto essere vivi è decisivo: ecco perché l’insieme di quello che accade in teatro ci attraversa fortemente. Quotidianamente ci assale un grado di abilità; è una strana ebbrezza che ci spinge con zelo nel lamento ruvido degli eventi. Enorme e immane lo sforzo di ignorare il tempo contrario che guarisce…!
Sempre di un’opera d’arte si tratta?
Molti quadri “incorniciati” nei musei e nelle case ci esortano, ci spingono, quasi è una supplica a sentire il loro potenziale ventoso. L’opera d’arte è una fenditura che non ha tempo, è un crocevia di sentimenti che si attiva non appena, disarmati, ci poniamo in suo grembo; ci porta a diventare attori nelle storie a cui abbiamo voltato le spalle per mille poveri motivi. Sentiamo l’avvertimento a non fidarci dei nostri parcheggi d’anima.
In teatro il monito aumenta: gli atti scenici vociano forte per dirci che le storie devono marcire bene per poi fermentare in nubi di piogge fertili di futuro; abbiamo troppe narrazioni che non si lasciano trapassare e non marciscono fino in fondo, così, puzzano.
Lo spazio di un’opera in scena prevede uno sguardo prospettico, incorniciato da una scatola teatrale. Questo condiziona la creazione?
Un essere invaso dal magnifico quadro mette in moto tutto di sé; un essere in teatro proietta se stesso in alto, là dove raggiunge l’energia degli attori, su, dove si formano personalità volanti e cambianti; se per sue ragioni non può, finge di assorbire un buon quadro semovente.
Qual è la genesi dell’opera in scena? Ascolti prima la drammaturgia, agisci contemporaneamente?
Il disegnatore che come un operaio ritardatario deambula fra gli attori e le loro parole: è immagine che mi prende. Un operatore che si ritrova fatalmente in scena e decide di prendersi cura, di costruire la colonna visiva… più che un balletto di mosse opportune e relativi gesti in cromie espressive mi cattura il grezzo preoccupante del disperso tra le maglie di una regia lucida e avventurosa. Gli arresti del dipingere all’incedere delle intensità degli attori, il chiedere di andarsene, il segno che finalmente accoglie frasi d’emozione, e il sentimento disegnato dal nascondersi che fugge.
Quale dialogo intercorre o deve intercorrere tra la narrazione della scena e quella del suono/parola?
Il mondo dei segni bidimensionali si illude di avere un volume, gli attori vivi e voluminosi si sfilano in perturbazioni di fumetto. La scena è sempre l’intero occhio universale che vede, è proprio così, non è metafora. Lo si presagisce da sempre, ogni organismo unicellulare ha più chiaro di noi, questo. Il teatro è radiografia di cosa avviene nel perché intrinseco.
Cosa rimane alla fine di uno spettacolo? Qualcosa da conservare? E con quale memoria?
Inevitabilmente le carte da scena permangono come orme stracciate, il vivo è passato da lì ed è già ripartito. Gli occhi hanno visto senza mediazioni il bianco cartaceo fessurarsi in scacchiere di corpi. Pennello, mano, corpo, segno, foglio, lievitando mimiche d’esseri dipinti già sono fatalmente in un “dopo” che accede ai frammenti rimasti: possibili quadretti? Fine ingloriosa direi. Meglio che tutto resti nelle nuche come quando si guarda il cielo di notte.
Il segno che scegli è rapido ma sintetico. È simile all’illustrazione? Alla pittura rupestre? Come definiresti il segno per la scena?
Sento alternarsi l’incisione, il colpo di sciabola e le circolarità sommesse del pennello da barba. Certamente le pitture rupestri sono in me; quel sono qua, con molto di più del sensibile che i messaggi antichi portano, è la schiena del cavallo su cui monto. Tutto per definire il mio gesto: ventoso e infranto. Mi ha sempre affascinato il “rompere” dei cavalli nelle corse; pezzi di selvatico affioranti, riviventi. La scia d’umanità sconfitta per attimi.
Il tuo mondo simbolico preesistente si adatta ai contenuti del teatro o rimane inalterato e continua a parlarci di animali, mondi rovesciati e universi paralleli?
Le forme primordiali dei desideri, delle visioni e delle volontà abitano il dietro le quinte delle cose. Il mio desiderio curvato è tutti i palcoscenici, il mio orizzonte stagliato è in ogni sguardo, la mia pressione plasma con ogni mano, zampa, ala o pinna…
Ogni teatro ha il proprio personale fantasma, quell’energia che vive nei sentimenti senza nome e che vuole un di più. Le vite sorreggono le forze che sorreggono i teatri (atlanti che sostengono il cosmo). Perfino le acque, così inarrestabili; se vogliono vincere la gravità coscientemente devono chiedere di entrare nei corpi vivi. I vapori lievitano dietro le quinte per piovere poi in piogge e pressioni. Voci e forme che permettono i fiumi dei desideri e il grande desiderio contrario.
Stiamo accompagnando dolorosamente la guerra e la pace. Il teatro che grida con altra voce e disvela.
Come evitare in scena la didascalia visiva?
L’opera scenografica vive nel ritmato perdere e ritrovare il corpo della storia. Il gesto pittorico in scena deve essere poggiato e insieme assente dai gesti degli attori vivi. La deriva struggente delle figure disegnate è tagliata dalle imboscate che essa provoca, sono come assalti in faccia alla vicenda narrata e rivestono di pittura zone temporali preventivamente intuite con la regia.
Perché usi la carta?
La carta si può strappare e lo strappo suona. Amo infarcire pareti in legno di molti strati cartacei; si dice a cipolla, no? Le figure dipinte si disarticolano, si mutilano sotto l’effetto di strappi. Rimanenti piedi, mani, teste, femori, labbra, rivivono ricongiunti da nuovi, estranei corpi. Una penetrazione delle superfici scavata da ciò che scompare. Anche l’ultimo strato può disintegrarsi; così, tutto risulta passato dalle pupille di tutti; immagini rimaste in sola memoria, sono i sentimenti innominati degli interspazi, pronti per diventare nubi fermentate.
Mi aspetto, però, nel posto in cui l’errore mi darà.
Simone Azzoni
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