Un Ballo In Maschera secondo Damiano Michieletto
Il Teatro Comunale di Bologna ha inaugurato la stagione lirica 2015 l’11 gennaio con la produzione di Damiano Michieletto di “Un Ballo In Maschera”, che nel 2013 causò un vero putiferio alla Scala. Vi raccontiamo la sua interpretazione.
Damiano Michieletto ha rivisto lo spettacolo togliendo alcune notazioni (ad esempio, all’inizio del secondo atto) che più avevano irritato il pubblico scaligero quando lo spettacolo debuttò a Milano. Al calar del sipario, dopo circa tre ore e mezza in sala, il pubblico del Comunale ha applaudito calorosamente il maestro concertatore Michele Mariotti, i cantanti, l’orchestra ed il coro. Ha espresso riserve nei confronti di Paolo Fantin (scene), Carla Teti (costumi) e Alessandro Carletti (luci), ossia i collaboratori di Michieletto, trattenuto ad Amsterdam da un altro impegno.
D’Annunzio aveva definito Un Ballo “il più melodrammatico dei melodrammi”.Bernard Shaw lo accusava di possedere tutto ciò di cui Wagner aveva liberato il teatro. Ma si è detto anche che Un Ballo è il Tristano e Isotta o il Don Giovanni di Verdi. Tante sono state le parole spese sull’opera, così come i pareri e le letture nel corso degli anni, spesso diametralmente opposti tra loro. Ma al di là delle interpretazioni, Un Ballo rappresenta l’unico caso in cui Verdi accettò di rielaborare il libretto (ben riuscito) di un’opera che ancora era rappresentata sulle scene, ovvero quel Gustavo III in cinque atti, scritto da Scribe per Auber, e ispirato a un fatto realmente accaduto: la congiura e l’attentato contro il sovrano illuminato e filofrancese Gustavo III di Svezia. Le ragioni della scelta di Verdi possono essere le più varie: sicuramente la più semplice è l’urgente necessità di un testo.
L’opera fu rappresentata per la prima volta al Teatro Apollo di Roma il 17 febbraio del 1859, anno molto importante anche per le vicende personali di Verdi: conobbe Cavour e sposò Giuseppina Strepponi, con la quale (scandalosamente!) conviveva da quattordici anni. Ma prima del debutto l’opera passò attraverso numerose vicissitudini con la censura. La storia è quella di un marito che per vendetta e gelosia uccide il presunto rivale in amore (e suo amico), niente meno che il re di Svezia. Fin dall’inizio Verdi sapeva che rappresentare un regicidio non sarebbe mai stato permesso nella Napoli borbonica o nella Venezia o Milano austro-ungariche ed ancor meno nella Torino dei “bigotti” (almeno ufficialmente) Savoia.
Inizialmente intitolata Una vendetta in domino, l’opera fu considerata troppo “oltraggiosa” ai poteri costituiti dell’epoca. Fu così proposta alla più “tollerante” Roma, accordandosi però su modifiche parziali: Verdi trasferì l’azione nel Nordamerica del Seicento e Gustavo III venne divenne il Governatore di una Boston da caricatura. Non è stato, quindi, Damiano Michieletto il primo a spostare l’azione di Un Ballo in America sotto il profilo temporale e spaziale. L’idea fu di Giuseppe Gioacchino Belli, nella sua veste non di poeta ma di presidente della Commissione di Censura dello Stato Pontificio a metà Ottocento.
Secondo l’editore Ricordi, Belli era molto sensibile “all’idea di quel metallo” (un verso notissimo del rossiniano Barbiere di Siviglia) che lo stimolava a dare il meglio di sé. Suggerì lo spostamento di luogo e di epoca che permise a Verdi (e a Ricordi) di far debuttare l’opera a Roma nel marzo 1859 al Teatro Apollo a Tor di Nona (successivamente distrutto da un incendio; oggi una stele sul Lungotevere ricorda il luogo dove era stato eretto). Non che Belli intascasse volgari “bustarelle”, ma nella Roma del Papa Re gli alti burocrati avevano stipendi da fame che integravano con doni da fare aguzzare il cervello.
In effetti, il luogo dell’azione cambiò spesso: nel 1861 l’opera fu ambientata a Firenze. Lo stesso anno, in scena a Londra, fu ambientata a Napoli. Nelle rappresentazioni degli ultimi decenni è spesso restaurato l’ambiente storico di Stoccolma e di una Corte dove, anche a ragione di avere un Re proto-illuminista, il clima era più libertino che liberale (e non piaceva quindi ai tradizionalisti luterani). Pare che, nella realtà effettuale delle cose, Gustavo III fosse “libertino assai” (si direbbe a Napoli) e avesse orientamenti bisessuali (per questa ragione, nell’opera, il paggio Oscar è un soprano lirico di coloratura). Quindi, proprio l’antitesi della intelligentsia puritana a Palazzo.
In Italia, prima di Michieletto, Pier Luigi Pizzi, in una versione presentata a Piacenza, Madrid, Palermo e Macerata, ha situato Un Ballo nella Dallas nei giorni dell’assisinio di Kennedy (22 novembre 1963). Negli Stati Uniti, per ragioni di economia, si è spesso alternata l’opera Willy Stark del 1981 di Carlside Floyd (ispirata al Governatore della Louisiana del romanzo e film di successo Tutti gli Uomini del Re) con Un Ballo al fine di utilizzare gli stessi costumi e le stesse scene; quindi, inserendo la vicenda in una campagna elettorale senza esclusione di colpi- da House of Cards Anni Cinquanta.
La regia di Michieletto (rivista rispetto all’edizione scaligera del 2013) ambienta l’opera in una feroce campagna elettorale americana oggi. Non è affatto rivoluzionaria ma ha precedenti illustri. Una campagna elettorale è un quadro appropriato per illustrare contrasti nell’entourage del candidato e per mostrare la delusione e rabbia del suo braccio destro quando ha sufficienti indizi per pensare che il “suo” politico abbia iniziato una tresca con la di lui moglie. È anche un quadro appropriato per il dubbio, e la violenza, nei rapporti interpersonali e professionali. È pure un quadro appropriato per il fondale agguerrito. Manca, però, di libertinaggio (ce n’è più di una eco nella partitura sia dall’introduzione su un ritmo di quadriglia) e di lussuria. E dire che il duetto del secondo atto è il momento più carnale che il teatro d’opera italiano abbia avuto nel periodo tra Le Compte Ory di Rossini (1828) e Manon Lescaut di Puccini (1893 ), una lunga fase in il teatro in musica italiano (a differenza di quello francese e tedesco) sembrò ignorare l’eros! Nella versione di Michieletto c’è un pò di sesso (ce ne era di più nel 2013 alla Scala) ma manca totalmente l’eros e l’ambiente in cui si sviluppa. Il grande duetto che è il fulcro innovativo dell’opera resta monco.
Inoltre, accanto a un’ottima recitazione, ci sono veri e propri errori tecnici. Il principale è l’enorme (e pesantissimo) apparato scenico (che in Italia solo La Scala e il Carlo Felice di Genova possono adottare) Per accomodarlo, l’azione viene interrotta da un lungo intervallo tra il primo e il secondo quadro del primo atto. Il secondo quadro del primo atto viene poi fuso (con un breve cambio scena) con il secondo atto. La sequenza drammaturgica perde non solo ritmo ma anche lógica, poiché la visita all’antro di Ulrica (traformata in santona teleimbonitrice) è una conseguenza diretta della precedente scena a Palazzo, mentre l’orrido campo del secondo atto ha una sua integrità che per risaltare deve restare isolata dal resto.
Michieletto ha dato prove migliori. Un Ballo che va ripensato e presentato unicamente in teatri adatti alla sua pesante impalcatura scenica.
Giuseppe Pennisi
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