Su Romanzo d’infanzia. Conversazione con Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
Settecento repliche, diciotto anni di vita: uno degli spettacoli che ha fatto conoscere il teatro-danza italiano nel mondo non smette di incontrare il pubblico di ogni età. Abbiamo intervistato i due protagonisti di “Romanzo d’infanzia”.
Una breve premessa, a beneficio di chi non ha visto Romanzo d’infanzia: in scena, spiegano Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, ci sono due danzatori “che si alternano tra essere genitori e figli e poi di nuovo padre e figlio e madre e figlia e poi fratelli, sì, soprattutto fratelli, e alternano il subire e il ribellarsi e fuggire e difendere e proteggersi e scappare e tornare e farsi rapire per sempre senza ritorni: insomma vivere”.
A proposito: come si tiene vivo uno spettacolo come questo?
Michele: Nello stesso modo in cui si tengono vivi gli alberi. Le piante più longeve sono quelle che hanno le radici più profonde.
Antonella: Non so quale sia la formula… Certo è un lavoro che ha attraversato le generazioni. Ci è successo di incontrare coppie senza figli che sono tornate a vedere lo spettacolo con un bambino, poi con due. Romanzo d’infanzia sta accompagnando anche la nostra crescita, la nostra vita personale. Diciotto anni fa non avevamo figli. Poi è arrivato Tobia. Tutto cambia e si trasforma. E noi con questo tutto.
In che senso?
Antonella: Quando nasce un figlio si instaura una diversa relazione non solo con la vita, ma anche con il pensiero di dover lasciare tutto un giorno, con la morte. Avendo messo al mondo un essere umano, in un certo senso si diventa più responsabili della vita stessa. Affrontare la scena dello spettacolo in cui al cimitero leggiamo l’epitaffio sulla tomba di un bambino di cinque anni, ora ha un peso e un coinvolgimento diverso: è più doloroso.
Michele: Romanzo d’infanzia ha una forte componente autobiografica. Siamo partiti da episodi della nostra infanzia per costruirlo. Per esempio, nella scena in cui il padre picchia il figlio, mentre recito la parte di entrambi i personaggi, mi capita di rivivere fisicamente alcune di quelle lontane sensazioni… Così come nella scena del collegio: rivivo il momento in cui i miei genitori mi comunicarono quella loro decisione. Abbiamo cercato di toccare con leggerezza e ironia temi fondamentali come vivere, morire, fuggire per sempre, distruggere, nascere e rinascere. Per questo i bambini ridono e stanno al gioco, mentre gli adulti spesso si commuovono e un po’ si “impermalosiscono”. È uno spettacolo dalla parte dei più deboli, dei bambini.
Romanzo d’infanzia non propone un finale consolatorio, riappacificato: i due bambini protagonisti fuggono via “per sempre” dai loro genitori. Quali sono state le reazioni più sorprendenti a questa vostra scelta?
Antonella: Nei primi anni di repliche, un giorno in Francia subito dopo uno spettacolo arrivò in camerino una mamma con tre figli piccoli. Era arrabbiatissima. Considerava il nostro lavoro un’istigazione alla fuga. Ci accusava di dare ai bambini un’immagine falsa, anti-educativa delle figure genitoriali. Ricordo anche che alcuni giorni dopo una replica in provincia di Milano, il Centro Teatrale che aveva organizzato il tour ci inviò via fax un articolo di cronaca del giornale locale intitolato Dopo essere stato a teatro, bambino scappa nel bosco. Questo ragazzino aveva preso un brutto voto a scuola ed era fuggito nel bosco. La nonna, che giorni prima aveva ascoltato il nipote raccontare Romanzo d’infanzia, immediatamente incolpò “il teatro” dell’accaduto.
I bambini hanno bisogno di una narrazione per star vicino all’espressione danzata? La forma in sé non è sufficiente?
Michele: Bisogna fare in modo che i corpi stessi diventino narranti. Oltre al testo e alla regia, il longevo successo di questo spettacolo è dato dalle forme, dalle composizioni dei corpi, dai suoni che comunicano aldilà delle parole, dalle atmosfere di luce e dai silenzi, che urlano e danno i tempi.
Avete creato Romanzo d’infanzia nel ’97 con Bruno Stori e Letizia Quintavalla. Due anni dopo la stessa squadra ha prodotto Fiaba buia, che ha avuto molta meno fortuna. Perché, secondo voi?
Antonella: Per i contenuti. Fiaba buia era un lavoro decisamente scomodo, che parlava del lato oscuro e più nascosto delle favole: dei tabù e degli aspetti che nessuno vuole vedere.
Michele: Lagente spesso viene a teatro per rimuovere o essere semplicemente intrattenuta. Ricordo anche le solite difficoltà “italiane” in merito all’organizzazione e alla distribuzione di uno spettacolo autoprodotto e autogestito.
Nel 2007 Valeria Morselli ha pubblicato il libro L’essere scenico, nel quale analizza i rapporti, nel vostro lavoro, fra lo Zen e la danza. Di cosa si tratta?
Michele: Zen è un modo di essere, un’attitudine alla vita, ma per noi è soprattutto una posizione, una forma e quindi la possibilità di danzare in un certo modo. Se cantare è pregare due volte, danzare è pregare forse tre volte o più. Ripetiamo spesso: “La forma è il tempo della nostra presenza”. Forma e tempo sono con lo spazio le tre costanti universali che ci fanno muovere e danzare. Tutto ciò viene ben approfondito nel libro di Valeria Morselli. Nelle nostre creazioni lo Zen c’è proprio perché non si vede. Se apparisse, se fosse mostrato, non sarebbe più Zen…
Michele Pascarella
http://www.abbondanzabertoni.it
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