La storia del teatro è nuda. Jan Fabre al Théâtre de Gennevilliers
Creato nel 1984 per la Biennale di Venezia dall’allora 24enne Jan Fabre, “Il Potere delle follie teatrali” è un’opera chiave della produzione dell’artista fiammingo. Ricreata nel 2012 all’Impulstanz Festival di Vienna, col sostegno di Romaeuropa Festival, la pièce è stata ripresa nel 2013 ad Avignone. L’abbiamo visto al Théâtre de Gennevilliers, diretto da Pascal Rambert.
Una specie di risveglio. Ventitré lampadine sospese al graticcio illuminano lentamente lo spazio scenico. E l’occhio dello spettatore percepisce piano piano le sagome degli attori, disposti in fondo alla scena, di spalle, in linea orizzontale, fronte a un enorme schermo bianco. Questo primissimo movimento oculare della pupilla che, dilatata nel buio pre-scenico, si ritrae gradualmente per effetto della luce, è l’inizio sorprendente de Il Potere delle follie teatrali di Jan Fabre. Uno spettacolo di quattro ore e venti minuti che ricrea la storia del teatro secondo una logica della sensazione, del corpo, del piacere della visione e delle sue apparizioni sensibili e palpitanti, non può che cominciare dall’occhio. Poi undici dei sedici performer – tra cui gli italiani Giulia Perelli e Pietro Quadrino – avanzano di spalle verso il proscenio, declamando date e luoghi precisi della tournée internazionale di quello spettacolo che debuttò nel 1984 al Teatro Goldoni di Venezia.
Questi “guerrieri della bellezza”, come Fabre ama chiamarli, battono i piedi al suolo, all’unisono o sfalsati. Ed è un incedere che seduce e trasporta. La macchina della Storia, “orologeria di precisione”, come direbbe Marcel Duchamp, è dunque in movimento, inesauribile e implacabile. Durante tutto il corso dello spettacolo, questa mitragliata di date, luoghi e autori gloriosi del teatro segue lo snodarsi d’apparizioni di straordinaria forza simbolica. Fabre mette pertanto lo spettatore costantemente in bilico tra il brivido intimissimo d’abbandonarsi al dispiegarsi temporale delle proprie sensazioni e quel piacere, altrettanto potente, di riconoscere al fluire del tempo un ordine cronologico e lineare.
Il Potere delle follie teatrali, nutrito di pensiero foucaultiano, sembra mettere in scena appunto il gioco di seduzione, illusorio e affabulatore, della Storia. Il regista fiammingo immerge allora lo spettatore in un universo insieme lezioso e autoritario. Rappresentazioni pittoriche di scenette di genere a tema erotico, tratte dal repertorio iconografico del manierismo europeo sono proiettate di continuo sullo schermo in fondo alla scena; il suono di baci, simili al cinguettio degli uccellini, resta impresso nella memoria sonora dello spettatore come il sopraggiungere reiterato dell’ouverture del Tristano e Isotta di Richard Wagner nella scena d’Atteone o le musiche minimaliste di Wim Mertens.
Magistrale, in questo continuo gioco di corteggiamento, la scena della “bella addormentata”, un manifesto, quasi, della storia della danza secondo Fabre. Sullo schermo sono proiettate le date di spettacoli storici di Martha Graham, Isadora Duncan e Trisha Brown. E davanti, cinque fanciulle s’accasciano come svenute tra le braccia d’altrettanti innamorati. Una volta condotte e deposte sul proscenio, sotto l’effetto dei loro baci, si risvegliano. E allora eteree, come ninfe della natura, si dirigono di nuovo verso i loro amanti, tornati intanto al punto di partenza. E il gioco ricomincia, come in una fontana barocca. Nella medesima traiettoria lineare, d’andate e venute, dal fondo fino al proscenio, s’assiste allora all’estensione organica, una specie di fioritura, del ritmo che evolve dentro al corpo, ai gesti, ai respiri degli interpreti.
Tutto lo spettacolo allora sembra costruito alla maniera d’una danza, dove Eros e Tanatos si rincorrono mutualmente nell’atto eternamente presente della creazione. E allora, come nella fiaba di Andersen, Gli abiti nuovi dell’imperatore, la storia del teatro sfila in scena finalmente nuda. Bello quel lunghissimo momento in cui gli attori si svestono d’abiti visibili e si rivestono d’abiti invisibili per ritrovarsi alla fine con i calzini al posto dei guanti o la giacca al posto d’una sciarpa. Abiti che per tutto il corso dello spettacolo passano di corpo in corpo seguendo il dipanarsi della drammaturgia scenica. “La Storia del teatro è nuda!”, sembra dire Jan Fabre. Perché il suo corso appartiene all’ebbrezza della danza, al piacere della visione e alle figure potentissime e ancestrali che è in grado di produrre. Dell’Electra di Richard Strauss, che cantano due interpreti verso la fine della pièce, ci resta impresso appunto quel monito di sapore nietzschiano: “Taci e danza”.
Marco Villari
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