Antonio Latella. Un’enciclopedia di metafore fassbinderiane

Ha debuttato al Teatro Storchi di Modena “Ti regalo la mia morte, Veronika”. La regia è di Antonio Latella, liberamente ispirata alla poetica del cinema di Rainer Werner Fassbinder.

Antonio Latella, ossia quando lo scambio di scena è una mise en abyme. Teatro e cinema si scambiano le forme in una partita a scacchi difficile, intellettuale. Ti regalo la mia morte, Veronika, al Teatro Storchi di Modena, è un’algida enciclopedia di metafore, di rimandi che si perdono tra citazioni, allegorie, omaggi autoreferenziali all’arte di Rainer Werner Fassbinder e al percorso che il regista napoletano ha iniziato con Petra von Kant.
Il cinema e il teatro dunque si scambiano la scena, se la rubano con allusioni e frammenti. Tutto davanti a noi, dentro un contenitore che acconsente mutilazioni, montaggi arbitrari, manipolazioni: il classico. Il teatro innanzitutto. Un “coro” di attori e servi di scena ci scarica addosso la loro forma, il loro recitare, più che l’essere personaggio. Dalla ribalta ci guardano, chiedono aiuto, parlano di una parte non scritta per loro, facile andare ai Sei personaggi pirandelliani.
Con l’autore siciliano nacque la figura del regista. Qui il metteur en scène è una cinepresa in scena. Oggetto transizionale che è tanto personificazione dell’amato Rainer, quanto l’istituzione nascente di una regia che oggi, anche in Latella, insegue i capricci dei cammei e delle autocitazioni. Un gioco che va dai primati (il regista in un’intervista ha detto che non li userà più) a quell’albero da Giardino dei ciliegi. Un engramma splendente depositato nella memoria degli spettatori che magari non sono freschi della versione cinematografica di Veronica Voss, ma ricordano il Cechov fatto da Gabriele Lavia.

Antonio Latella - Ti regalo la mia morte, Veronika - Teatro Storchi, Modena 2015 - photo Brunella Giolivo

Antonio Latella – Ti regalo la mia morte, Veronika – Teatro Storchi, Modena 2015 – photo Brunella Giolivo

Monica Piseddu è una Veronika che sta sulla soglia tra platea e palco, artificio della recita e il realismo delle seggiole teatrali in proscenio. L’effetto è lo “straniamento” predicato da Brecht. Congelare le emozioni, fissarne le forme dentro ricorrenze ossessive che si stagliano come ombre dentro il bianco della scenografia disegnata da Giuseppe Stellato. Lì dentro si muore e non di eroina, ma di teatro. In modo sghembo, squilibrato. Dal white cube partono segnali, rimandi, segnali di riconoscimento che cortocircuitano in una radiocronaca della corsa dei cavalli che si sovrappone a quella della trama del film. I doppi si mescolano. Sul quel palco diviso dal binario del carrello di una macchina da presa si consuma il gioco delle parti. La cinepresa inquadra la platea, l’incipit del film Veronika Voss diventa uno specchio che rimbalza le immagini sul fondale, un altro schermo di pelliccia bianca su cui schizzano le ombre, i cocci del vaso, gli squilli futuristi di un telefono “alla Marinetti”, le proiezioni della psiche, e il volto di Rainer. Si scambia la scena, è la volta del cinema che sollecita il palco con le sue forme e le sue citazioni.

Antonio Latella - Ti regalo la mia morte, Veronika - Teatro Storchi, Modena 2015 - photo Brunella Giolivo

Antonio Latella – Ti regalo la mia morte, Veronika – Teatro Storchi, Modena 2015 – photo Brunella Giolivo

Latella usa deliberatamente il montaggio per destrutturare la trama e allungare (a nostro avviso troppo) oltre il finale del film. Si sventaglia il cinema del regista bavarese, il tram di Veronika diventa quello del “desiderio”, i primati non sfigurerebbero sotto il monolite di Kubrick e il cappottino rosso salvifico della protagonista accarezza il buonismo di Schindler’s List. La colonna sonora diventa respiro e il respiro il ritmo del battito cardiaco scandito ai microfoni dai gorilla albini. Pulsazioni sonore, quelle orchestrate da Franco Visioli, che alla fine si allentano in intenti consolatori. Non ci volevano quelle incrostazioni di zucchero sotto il ciliegio.
La fulgida nitidezza delle luci, l’uso potente e disturbante dei costumi (prima dei gorilla albini e poi morbidi come la carne) e quel brano recitato dai Canti del caos di Antonio Moresco (coautore è Federico Bellini) celebravano già l’assunto fassbinderiano di una visione pulita. Troppe capriole intellettuali sul finale, fra travestitismo e ralenti alla Douglas Gordon. Era lampante la metafora della scimmia come follia, mostruosità accogliente (per il pelo) e feroce per una maschera di gomma. E non serviva ridirci quanto il palcoscenico sia reale e mentale allo stesso tempo. “Vorrei quel silenzio che c’è prima di un film”, aveva detto Fassbinder. Un antidoto contro il barocco.

Simone Azzoni

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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