Il matrimonio di Maria Braun. Da Fassbinder a Ostermeier
Alla Biennale Teatro di Venezia, il regista tedesco Thomas Ostermeier ha messo in scena il film di Rainer Werner Fassbinder. Al centro, una figura femminile complessa e difficile, emblema della Germania del dopoguerra.
L’AMORE AI TEMPI DEL CONFLITTO
“La gente non ha imparato ad amare”: questa frase di Rainer Werner Fassbinder potrebbe essere il sottotitolo di ogni sua opera. Vale per i personaggi di Lola, di Petra von Kant, come per Maria Braun. Quest’ultima, protagonista di Die Ehe der Maria (Il matrimonio di Maria Braun), è il ritratto che esprime quanto l’amore sia un gioco di potere, sempre e comunque, anche se ci illudiamo che sia altro.
Lo confermano le sue vicissitudini, le sue scelte, il suo rapporto con gli uomini, il bisogno di denaro, l’inconsapevolezza brutale, le regole sociali ed economiche in cui vive. “Sono tempi brutti per i sentimenti”, dice Maria nel testo, esprimendo tutta la rabbia, la fame d’amore, l’arroganza e la fragilità del suo autore.
CONTRO IL PERBENISMO, IERI E OGGI
Il regista tedesco Thomas Ostermeier, direttore della Schaubühne di Berlino, nel mettere in scena la sceneggiatura del film omonimo, realizzato dall’allora 32enne Fassbinder con protagonista la mitica Hanna Shygulla, mantiene quella carica di provocazione più esistenziale che politica, pur nel contesto delle contraddizioni della Germania del dopoguerra in cui l’autore fa vivere la storia (tutte le sue storie), ritraendo la distruzione fisica e morale della società tedesca. Perché, se i danni materiali si possono riparare, quelli della coscienza sono lunghi da guarire.
Oltre a essere, quindi, critica politica radicale al perbenismo della Germania contemporanea e alla sua rimozione del passato nazista, Die Ehe der Maria è il ritratto amaro di una donna stritolata da una società maschilista, che ne sfrutta la disinibizione sessuale e ne baratta il possesso mortificandone subdolamente la gioia di vivere e l’illusione di emancipazione e autonomia. Maria riesce, con freddezza e volontà ferrea, a sopravvivere da sola, a imporsi e a salire nella scala sociale, ma fallisce nel rapporto con l’uomo che ama.
LA TRAMA
Siamo nel 1943. Maria sposa frettolosamente un sergente, Hermann, destinato al fronte russo il giorno dopo il matrimonio. L’uomo è dato per disperso e lei, per sopravvivere negli anni miseri del dopoguerra, diventa l’amante di un sergente di colore conosciuto in un locale da ballo gestito dall’esercito di occupazione statunitense, dove Maria lavora come entraîneuse, e del quale rimane incinta. La relazione sentimentale non compromette però il suo sentimento di fedeltà verso il marito. Questi inaspettatamente ritorna e Maria, per difenderlo, uccide l’amante. L’ex sergente per salvarla si accusa del delitto e finisce in galera.
Dopo quest’ennesimo atto d’amore estremo, Maria si sente sempre più la “signora Braun”, determinata a realizzare il suo sogno di felicità e benessere coniugale, a qualunque costo e con ogni mezzo. Diventa la compagna di un dirigente industriale, Karl, trasformandosi in socia e manager ricca e potente. Dopo la scarcerazione, Hermann non torna a casa e scompare. Qualche tempo dopo, Karl, gravemente ammalato, muore. È il 4 luglio del 1954, la Germania sta giocando la vittoriosa finale dei mondiali di calcio, quando Hermann arriva nella lussuosa casa di Maria svelando un patto segreto stipulato con l’affarista: l’aver ricevuto di nascosto da Karl una grossa somma di denaro affinché attendesse la sua morte imminente prima di ricongiungersi alla moglie.
La donna, sconcertata dall’emozione e dalla delusione, lascia (inavvertitamente?) aperto il rubinetto del gas: quando Hermann si accende una sigaretta, la casa esplode, ponendo fine al mai consumato matrimonio. Maria Braun ha avuto un unico scopo vissuto come una missione: realizzare, insieme al marito, il proprio ideale privato di felicità coniugale e di benessere. Per questa missione è stata disposta a tutto: all’adulterio, alla prostituzione e persino all’omicidio. Ma la felicità non è mai giunta.
LO SPETTACOLO DI OSTERMEIER
L’adattamento di Ostermeier, presentato alla Biennale Teatro di Venezia, è affidato a un gruppo di attori encomiabili che danno volto e corpo a più personaggi della vicenda. Unica donna, l’attrice Ursina Lardi, nel ruolo di Maria; gli altri, tutti uomini, con disinvoltura e pertinenza interpretano anche le parti femminili con veloci cambi a vista. È, questo, un allestimento diremmo “povero” rispetto alle vaste cornici cui solitamente Ostermeier ci ha abituati. La scena con le sue sole poltrone, qualche arredo e pochi oggetti è, contemporaneamente, un salotto, il foyer di un cinema, una stanza d’hotel, locale da ballo, appartamento.
L’andamento, veloce, è costruito a scenette, come fotogrammi di un film, con l’uso di microfoni e telecamere, e uno schermo dove scorrono immagini del nazismo precedute, all’inizio dello spettacolo, dalla lettura di lettere di ammiratrici – ritrovate negli archivi – indirizzate a Hitler, e da alcuni discorsi radiofonici di Adanauer sul controverso riarmo, all’epoca, del Paese.
In questo spazio ristretto scorrono, contemporaneamente, storia – un arco di tempo che va dalla Seconda guerra mondiale al 1954 – e vita privata, in un intreccio di vicende che hanno come perno Maria Braun, emblema delle contraddizioni della Germania. “Perché sono state le donne a dover ricostruire il Paese dalle rovine”, motiverà Ostermeier la sua scelta di avvicinarsi all’opera di Fassbinder.
Giuseppe Distefano
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