Aterballetto. La grazia della versatilità a Bologna
L’Arena del Sole di Bologna ha ospitato un trittico di coreografie decisamente proteiformi. A dimostrazione che il manierismo non è il destino di tutte le arti, non di tutti gli artisti.
Una bella sorpresa, la serata che la principale Compagnia di produzione e distribuzione di spettacoli di danza in Italia, recentemente riconosciuta dal MiBACT come Centro di Produzione della Danza, ha proposto nel più importante teatro bolognese. Tre coreografie (Upper-East-Side ed e-ink di Michele Di Stefano seguite da Rain Dogs dello svedese Johan Inger), diversissime tra loro per i modi che assume la relazione tra corpi, spazio e suono, concreta manifestazione performativa della “esigenza e curiosità di esplorare le diverse espressioni del linguaggio coreografico contemporaneo” che la Compagnia dichiara, presentandosi.
Il primo segmento della serata, Upper-East-Side, ripropone nuclei dello stratificato immaginario coreografico di Michele Di Stefano: una trama di assoli, duetti e momenti d’insieme a dialogare con un ordito di suoni sintetici, risolute entrate e uscite, rotazioni e linee oblique.
“Un corpo che danza lo fa veramente quando permette ad un’altra danza di esistergli accanto”: perfetto, il fondatore di mk, per muovere verso la seconda coreografia della serata, e-ink. Si tratta di un duetto del 1999 della durata di soli dodici minuti. Lavoro di esordio della compagnia, quando apparve ebbe grande fortuna di pubblico e critica, con decine di repliche in Italia e all’estero. e-ink, originariamente interpretato da Biagio Caravano e dallo stesso Di Stefano, è ora trasmesso a due danzatori della Compagnia con base a Reggio Emilia, il solido Damiano Artale e il magnetico Philippe Kratz: “Mentre ricostruivamo il lavoro per Aterballetto, a distanza di più di quindici anni, è stato soprattutto il corpo a ritrovare l’esattezza di quella scrittura, a rimettere in connessione tutti i particolari scollegati tra di loro per farli ridiventare organici nella loro misteriosa iconografia. Quel che abbiamo chiesto ai due nuovi interpreti è stato soprattutto una fiducia incondizionata nei confronti di questo sistema irriconoscibile, per produrre fisicamente un ritmo non necessariamente identico a quello originario ma capace di ricreare la stessa assoluta arbitraria autorevolezza di cui il lavoro è fatto”.
Completamente vestiti di bianco, con una grande E nera stampata sulla maglia, i due attraversano la scena con ampie falcate gommose, nelle quali si incuneano minimi movimenti segmentati degli arti e vibrazioni del capo. Due figure aliene che propongono un pensiero sul corpo semplicemente (semplicemente?) mai visto. “Necessità di non avere il controllo della lingua, di essere uno straniero nella propria lingua, per catturare la parola e mettere al mondo qualcosa di incomprensibile”: risuona Gilles Deleuze nell’inedito, sorprendente atto linguistico che accade davanti ai nostri occhi. Non a caso questa coreografia è stata inserita dalla studiosa e critica di danza Marinella Guatterini nel Progetto RIC.CI – Reconstruction Italian Conteporary Choreography Anni Ottanta-Novanta, lungimirante proposizione pluriennale pensata per ri-allestire e far circuitare alcune coreografie considerate esemplari.
Chiude la serata bolognese Rain Dogs, coreografia di Johan Inger su musica di Tom Waits. Impostazione affatto convenzionale, con costumi eleganti (uomini in pantaloni e camicia monocromi, donne in abiti leggeri) e un fare esplicitamente seduttivo. La nebbia avvolge alcuni precisi duetti e momenti d’insieme ricchi di sollevamenti, elevazioni, inarcamenti e slanci. Vigorose sezioni in sincrono, un prolungato effetto-neve, musiche decisamente espressive: tutto concorre a un caloroso apprezzamento da parte del pubblico.
Dopo Amedeo Amodio, che l’ha diretta per quasi diciotto anni, e Mauro Bigonzetti (direttore artistico dal 1997 al 2007 e coreografo principale della Compagnia fino al 2012), negli ultimi anni Aterballetto ha collaborato, tra gli altri, con Jiri Kylian, William Forsythe, Fabrizio Monteverde, Cristina Rizzo. E con Di Stefano e Inger, appunto: una costitutiva, quanto rara, accoglienza di modi diversi di intendere il corpo e la relazione con lo spazio, la musica e gli altri che rende questa “compagnia di solisti” un concreto, salutare esempio, in un panorama coreutico troppo spesso asfitticamente auto-riferito. Davvero il manierismo non è il destino di tutte le arti, non di tutti gli artisti. Chapeau.
Michele Pascarella
www.aterballetto.it
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