Il Bolero avanguardistico di Michele Merola
Alcune note sul lungimirante allestimento a cura della MM Contemporary Dance Company. Denso come una lezione di storia (dell’arte). Fra rimandi alla tradizione e consapevolezza del presente.
UNA SFIDA AMBIZIOSA
Non dev’essere facile, pur per un coreografo di solida scuola come Michele Merola, apprestarsi ad allestire un caposaldo come Bolero, dopo artisti della levatura di Aurel Milloss e Maurice Béjart. Una sfida da far tremare i polsi, deve essere, partire da uno dei brani più noti della storia della musica occidentale. Una lama a doppio taglio: da un lato l’innegabile richiamo del già noto, soprattutto per le platee meno disponibili alle sperimentazioni, dall’altro il doversi confrontare con la controversa questione dell’originalità: ripetere pedissequamente ciò che già altri hanno detto e fatto non porterebbe che ad accuse di incompetenza, plagio, mancanza di idee.
CITARE LA TRADIZIONE
Per togliersi d’impaccio, il coreografo di base a Reggio Emilia ha scelto di citare la tradizione: se è vero che ciò significa inserire un elemento del passato in un proprio discorso, modificandolo, paiono del tutto organici i molti riferimenti, più o meno espliciti, ad alcune delle ricerche nate negli anni che hanno visto il debutto della composizione di Maurice Ravel. Bolero, come è noto, ha fin dal proprio concepimento un legame indissolubile con la danza: a Ravel, in crisi con il mondo coreutico dopo aver rotto con il fondatore e direttore artistico dei Ballets russes Sergej Djagilev, questa composizione fu commissionata dalla danzatrice e mecenate russa Ida Rubinštejn, interprete nel 1928 del primo allestimento.
SCENOGRAFIA VIVA
Lo spettacolo di Michele Merola riprende e rilancia alcuni degli stimoli di quel fecondo momento storico, impostando l’architettura coreografica in costitutiva relazione con un elemento scenografico mobile, vivo: una sorta di cartone ondulato alto circa due metri e mezzo e lungo forse una quindicina di metri. Si tratta di un flessuoso pannello che interagisce incessantemente con i sette energici danzatori in scena: li inghiotte, li espelle, li cela, li esalta, secondo una logica, propriamente avanguardistica, del rendere lo spazio scenico elemento “drammaturgicamente attivo”. Essa trova una delle proprie origini nel dispositivo approntato dallo scenografo svizzero Adolphe Appia per le ricerche pedagogiche e artistiche portate avanti da Émile Jaques-Dalcroze nella città-giardino di Hellerau: un luogo astratto il cui scopo non è quello di visualizzare possibili scenari drammatici, ma di esaltare l’azione del corpo in movimento. Volendo sintetizzare con uno slogan: lavorare per creare non “lo spazio della danza”, ma piuttosto “la danza dello spazio”.
STARE NEL PRESENTE GUARDANDO AL PASSATO
Anche altri tentativi di rendere lo spazio entità attiva paiono essere stati intelligentemente assunti da Michele Merola: su tutti vale ricordare almeno gli screens di Edward Gordon Craig, alla ricerca di una scena che non si limitasse a ospitare il movimento ma che diventasse essa stessa soggetto cinetico, e il celebre dispositivo creato per l’allestimento di Le Cocu magnifique, curato da Mejerchol’d nel 1922.
Si potrebbe a lungo continuare, ma il punto pare già sufficientemente chiaro: in un panorama coreutico spesso suddiviso tra miopi conservatori e innovatori smemorati, il maggior merito di Merola pare essere quello di porsi nel presente con lungimirante attenzione verso il passato.
Infine. È di grande interesse il puntuale tracciato sonoro di Stefano Corrias, la cui composizione musicale si intreccia con quella di Ravel in tre momenti apicali della coreografia, a tessere un dialogo sorprendentemente efficace: inaudito e al contempo profondamente in ascolto del maestro. Chapeau.
Michele Pascarella
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