Anatomia a teatro. A Ravenna
Il Teatro Rasi di Ravenna ha ospitato l’inedito “Anatomia”, un format originale che nasce dall’incontro e dalla ricerca di tre professionisti della musica, della danza e dei new media. Rivelando un’efficace sinergia di intenti.
Simona Bertozzi, coreografa di punta del panorama italiano, Francesco Giomi, musicista e sound artist, collaboratore storico di Luciano Berio, ed Enrico Pitozzi, tra i maggiori esperti italiani di danza e new media, hanno presentato a Ravenna uno spettacolo originale. A loro diamo la parola in un’intervista a tre voci, per rintracciare le origini di questo progetto, i fondamentali del loro lavoro di ricerca e produzione artistica e le ragioni che li portano ancora oggi e con forza a scegliere l’Italia come luogo di vita e lavoro.
Come nasce il vostro incontro e lo spettacolo Anatomia?
Simona Bertozzi: Anatomia nasce dal desiderio di condividere alcune delle nostre visioni ed esperienze, attraverso un progetto a tre voci. Con Enrico collaboriamo in modo consolidato dal 2013 su progetti formativo/performativi; mentre con Francesco, dopo esserci incontrati a lavoro con Virgilio Sieni, abbiamo strutturato una collaborazione sempre più coesa e approfondita a partire dal 2014.
È stato Enrico a proporre il tema dell’anatomia, poiché fortemente connesso alla mia poetica, allo stesso modo si ricollega all’approccio organico di Francesco nei confronti della costruzione musicale. “Anatomia” dunque non solo in senso fisico e organico, ma come campo semantico aperto e sconfinato.
Francesco, quali confini assume la tua visione di anatomia e di corpo sonoro?
Francesco Giomi: Negli ultimi anni, all’interno delle esperienze di musica e sound art, l’idea di corpo sonoro ha assunto significati molto ampi e per certi versi molto distanti dal mio interesse. La corporeità di Anatomia è legata a una visione più “tradizionale”, poiché dovuta alla mia presenza in scena e al fatto che suoni dal vivo. Per me, appartenente al mondo dell’accademia, il suonare dal vivo mantiene un significato tradizionale: permette di creare delle relazioni, delle modulazioni e una continua variabilità e della musica che si lega fortemente al gesto.
Utilizzi anche strumenti acustici?
F.G.: Uso tre tipologie di strumenti: un sintetizzatore, un computer e poi due strumenti acustici, uno suonato da Simona e uno da me (che saranno una sorpresa).
Enrico, e per te che da tempo dedichi i tuoi studi al concetto di “presenza”, quali connotati assume il tema dell’anatomia all’interno di questo lavoro?
Enrico Pitozzi: Lavorare sull’anatomia significa rivendicare la centralità della dimensione organica e della technè (un saper fare del corpo), in tempi in cui questo non sembra più essere un aspetto preponderante della scrittura coreografica. Rimettere al centro della visione e dell’ascolto la dimensione anatomica: sia dal punto di vista del corpo che della sua relazione con il suono.
Ciò presuppone un’attitudine: porsi in una condizione di ascolto, nell’esatto momento in cui l’azione, sonora o fisica, può compiersi. Caratteristica dell’anatomia è anche la capacità di porsi in relazione contemporaneamente con la dimensione cosmica e con quella terrena. Se dovessi riassumere l’anatomia in un’immagine, sarebbe quella di un corpo dalle doppie radici: da una parte piantate a terra, dall’altra attaccate alle stelle. Ciò significa comporre un corpo vettore, un corpo mappa, che evidenzi le linee e le traiettorie verso la terra e quelle verso le stelle attraverso gli elementi del suono e delle vertebre, che sono a loro volta manifestazione di intensità.
Questo lavoro, rispetto ai precedenti, sembra abbandonare una dimensione collettiva a favore della singolarità. Superati anche il mito e i temi ancestrali del progetto Prometeo e di Animali senza favola, per rimettere al centro la ricerca sul corpo. Cosa ti porta a questi cambiamenti?
S.B.: Vero, Anatomia arriva dopo una serie di lavori corali, in cui la scrittura coreografica era molto strutturata e composta sulla necessità dei corpi presenti di riconfigurarsi nella relazione, nell’adiacenza, nel rapporto con lo spazio, con il volume sonoro. Alla coralità ho dedicato molto lavoro anche nell’ottica della trasmissione. Tornare in questo momento a un lavoro in cui la mia presenza si isola non è tornare a un livello di singolarità o a una dimensione più terrena, ma è invece immaginare che tutto ciò che ho elaborato e stratificato attraverso la presenza degli altri e in dialogo con loro, torni e si amplifichi attraverso la mia figura. Anatomia è dialogo all’ennesima potenza. Quando occupo lo spazio scenico cerco di trovare ed evocare una molteplicità di presenze, non una singolarità ma una presenza “sconfinata” che lancia le proprie vettorialità, modulando all’istante il dialogo con la tessitura delle pulsazioni sonore e luminose.
E.P. Vorrei specificare che Anatomia non è un solo, ma un duo: corpo danzante e corpo sonoro sono due acceleratori di forme. Il suono permette a Simona di esplorare le potenzialità del suo corpo e, a sua volta, ciò che prende forma in scena alimenta l’esplorazione sonora.
F.G. La mia presenza dal vivo è una presenza integrata, che respira insieme a quella di Simona, non creo una musica di accompagnamento.
In riferimento al suono, si parla di vibrazioni e volumi ma anche di “radure sonore”. Radure evoca l’idea di paesaggio. Quale significato date al concetto di “radura” all’interno delle vostre pratiche?
F.G.: Nel paesaggio sonoro “radura” si pone in contrapposizione a pulsazione, qualcosa d’impulsivo quest’ultimo e che porta un alto grado di energia istantanea e ripetitiva. La radura invece, o tessitura, è un suono che distribuisce l’energia nel tempo.
S.B.: Ne I chiari del bosco, Maria Zambrano definisce “radure” quelle insenature di luce che si dispiegano tra i rami percepibili solo attraverso una determinata modalità posturale, di vigilanza. E’ questo il modo in cui intendo le radure in riferimento al corpo: momenti in cui una serie di condizioni “ambientali” si coniugano in modo tale da determinare la postura del corpo e mettere in valore il peso specifico di quell’istante. Quest’elemento coreografico è tipico dei miei lavori corali, come anche di Anatomia.
Prometeo: Contemplazione è il primo quadro del progetto Prometeo. Quale valore e significato date al termine contemplazione e come interviene all’interno di quest’ultimo lavoro?
S.B.: Prometeo: Contemplazione, il primo dei sei quadri del progetto Prometeo, è caratterizzato da un diagramma di osservazione che procede dall’alto verso il basso. Questo crea una vertigine, una dimensione di attesa dello sguardo, un tempo sospeso in cui configurare da dove provengano l’azione e il corpo congelati in quell’istante e quale tensione produrrà l’azione successiva. È un senso di vertigine e attesa che certamente accompagna anche Anatomia. La radura è contemplazione, l’attesa durante la quale il corpo si pone in ascolto e vibra.
È anche forse l’atteggiamento richiesto allo spettatore, laddove colui che contempla non ha un ruolo passivo (come si potrebbe supporre) ma attivo…
S.B.: Si certo, riguarda la qualità della visione dello spettatore e non si tratta di un’attività passiva ma di un’azione che lo pone in una condizione di attesa, di sospensione, di appoggio della propria attenzione.
Guardare ad altezza d’erba è il titolo dello spettacolo creato con bambini tra i 10 e gli 11 anni per la Biennale di Venezia. Come hai lavorato e fatto fronte all’inconsapevolezza dei loro giovani corpi?
S.B.: I bambini sono fortemente esigenti e perentori. La loro fragilità si manifesta in piccole sbavature, sfasamenti ritmici, che diventano elementi potentissimi. Era la prima volta che lavoravo con dei bambini così piccoli e ne sono stata felicissima, poiché, nonostante abbia deciso di orientarmi verso una struttura coreografica del tutto organizzata, che non concedeva nessuna perdita di concentrazione, mi è stato chiaro fin dall’inizio che avrei potuto instaurare un dialogo simile a quello che pratico con i danzatori adulti. Abbiamo lavorato per 18 giorni, 3 ore al giorno dopo la scuola. Dopo aver dato indicazioni relative a frasi di movimento da memorizzare e specifiche modalità di utilizzo dello spazio, ho discusso con loro il tema del gioco popolare, invitandoli ad aggiungere i propri racconti. Ho chiesto loro di non essere mai concentrati in una danza singola, di ascoltare il corpo e il tempo condiviso con gli altri, come in un gioco popolare appunto. Poi ho sollecitato e accolto la loro partecipazione, indagando le necessità verso il gesto, verso l’attesa e il modo in cui amavano manipolare i loro corpi. Abbiamo condiviso il processo di costruzione coreografica utilizzando un vocabolario denso di elementi che solitamente condivido con i danzatori adulti: si parlava di modalità dinamiche, intreccio coreografico, manipolazione fra i corpi… riuscendo non solo a comprenderci ma a rendere loro talmente partecipi da suggerirmi letteralmente piccole modulazioni e modifiche alla scrittura coreografica. La loro fragilità e perentorietà mi hanno arricchita e portata veramente lontano.
Tutti e tre avete lavorato molto fuori dall’Italia, ma oggi siete qui, e sebbene vi siano sicuramente dei motivi fortuiti che vi hanno spinti a restare (o tornare) sono certa che si sia trattato di una scelta. A cosa è dovuta?
F.G.: Una volta posi questa domanda alla persona con cui ho lavorato a lungo, Luciano Berio: “Maestro come mai nonostante potrebbe vivere e lavorare dovunque, lei lavora in Italia?” “Perché in Italia si mangia bene”. È un modo di evadere la domanda naturalmente, perché sono scelte che hanno a che fare con molti aspetti della vita…
S.B.: Per me è stata una scelta elaborata nel tempo. Sono andata e tornata dalla Spagna e da Bruxelles parecchie volte, sempre con indecisione, poi successivamente mi è capitato di lavorare a un progetto europeo tra Gran Bretagna, Olanda eccetera. Ho scelto di restare perché, malgrado le difficoltà evidenti, penso che il livello e la qualità della ricerca artistica in Italia siano molto alti. Mi confronto sempre volentieri con ciò che accade oltralpe e la percezione è che ci sia un crescente interesse nei confronti della produzione artistica italiana. Penso che le istituzioni nazionali dovrebbero tentare di esportarla con più forza e coraggio.
E.P.: Ho vissuto a lungo all’estero e continuo ad avere in Europa le mie principali relazioni, ma penso che in questo momento rimanere in Italia a produrre, nonostante le difficoltà, significhi reagire a coloro che vogliono che questo Paese rimanga mediocre. È necessaria un’azione di coordinamento per rimettere al centro le potenzialità che il nostro paese ha dimostrato di avere, perché l’Italia ha il diritto di essere una nazione pienamente europea. Questo è il momento in cui la produzione di qualità torni a essere il punto di riferimento della nostra nazione.
Chiara Pirri
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