Viandanze Festival. Con un presepe di pecore senza pastore
“Le fumatrici di pecore” di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni è andato in scena al Viandanze Festival di Brescia. Uno spettacolo che strega per il verismo poetico, intimo, sottilmente realistico.
Le fumatrici di pecore, presentato al Teatro Sociale di Brescia nella cornice del Viandanze Festival, è grazia germinata dalla dis-grazia, dallo sgraziato, a tal punto da avere la forza di affermare un’altra bellezza: non accademica ma altrettanto limpida, pulita, trasparente. Antonella Bertoni sa riportare l’equilibrio performativo all’essenza stessa, al motivo stesso del gesto, della dimensione fisica, del rapporto con lo spazio. La relazione professionale con Patrizia Birolo, “portatrice sana di una diversa abilità”, aggiunge materia al dibattito estetico sulla responsabilità dell’handicap in palcoscenico. Il rapporto costruito durante un laboratorio torinese è diventato per simbiosi una necessità reciproca di essere veri, vergini alle citazioni, puri alla storia della danza che Antonella assieme a Michele Abbondanza ha percorso in lungo e in largo. Il poco, l’essenziale che emerge dal molto, dal rigore e dalla disciplina.
Ne Le fumatrici di pecore non c’è nulla che accentri o sottolinei un egocentrismo artistico. Il lavoro di Antonella pulisce fino quasi ad annullare la sua presenza per creare assieme alla Birolo un viaggio tra le immagini che “è sempre un incantamento, perché il cammino tra un essere e l’altro si fa più corto”. Così corto da diventare un compendio di metafore costruite con gli oggetti: un tavolino senza una gamba, un’asse di legno e le pecore del titolo che come correlativi oggettivi montaliani assorbono tutto il dolore e il peso delle esistenze in gioco. Le pecore sono il vizio, le pecore sono le paure, le pecore sono la grazia di una preghiera che ci ricorda certa femminilità alla Gualtieri, ma che non cede a ridondanza tragica o grottesca. Oggetti transizionali, feticci delle nostre diversità. E le pecore, occasione speciale per Brescia, sono gli studenti degli istituti superiori locali che sul palco all’inizio contribuiscono ad abbassare lo statuto della finzione-spettacolo in favore di un verismo poetico, intimo, sottilmente realistico.
All’inizio il rito di iniziazione alla sua spazialità, al gesto e alla sua naturalezza, alla parola si consuma in una sorta di prova aperta che allarga la condivisione con gli spettatori che spostano su un altro piano la visione dello spettacolo: non più pietà o benevola accondiscendenza alla diversità, ma attesa di una epifania poetica. Ci sono quelle cercate come la canzone di Tiziano Ferro e quelle spontanee come l’idea che le due danzatrici si aggirino umili tra le umili, pecorelle in un presepe abbandonato da Gesù. Del Cristo c’è solo la croce, ma sono le donne a portarne il peso, trascinandola lungo le diagonali e le ortogonali del palco.
Le metafore si sprecano ma la forza di quell’immagine è l’ennesimo scambio di scena. A dimostrarlo i richiami a Picasso, a cui il corpo di Patrizia Birolo tanto assomiglia, e a Bacon per quella carne di gambe macellate alle luci della ribalta. Ma saremmo nell’iconografico e l’incertezza e la fragilità della vita hanno ben altro da dirci.
Simone Azzoni
http://www.abbondanzabertoni.it/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati