Santarcangelo 2016. Intervista con la direttrice artistica Silvia Bottiroli
A pochi giorni dall’avvio della nuova edizione del Festival di Santarcangelo, in programma dall’8 al 17 luglio, Silvia Bottiroli anticipa i contenuti di una delle rassegne più attese nel panorama teatrale italiano.
Quali sono i temi dell’edizione 2016 del Festival di Santarcangelo? Come si forma e si costruisce un pubblico? Come cambia l’identità dei luoghi e degli spazi? Quale ruolo hanno l’innovazione e la bellezza a teatro? Silvia Bottiroli, giunta al suo ultimo incarico, fa il bilancio della sua direzione artistica, con una riflessione sulle tematiche identitarie di Santarcangelo.
Il Festival è sempre molto attento alle scelte iconografiche della sua comunicazione. Quest’anno su un pieghevole c’è una mappa. È un percorso soggettivo alla Fluxus, uno strumento per orientarsi o un tracciato per un percorso predeterminato?
Quello che citi è uno dei diversi materiali editoriali, e tutti hanno in copertina un’immagine di Zapruder filmmakersgroup, una serie di fotogrammi che appariranno nel prossimo film L’invincibile e che vedono un ragazzino giocare o combattere con una sedia dotata di corna – chiaramente un surrogato di un toro. Sono immagini dense di aspetti performativi forti che raccontano di una sospensione tra realtà e finzione. In quel pieghevole, la mappa racconta del rapporto con l’immaginario che il festival intrattiene, presenza ricorrente del non-umano, il paesaggio, la natura, l’infanzia non normalizzabile, e la loro possibilità di lasciare tracce negli spazi della città.
Quindi come si trasforma in modo permanente o impermanente un luogo performativo?
Credo che l’arte trasformi i luoghi mettendoli in vibrazione, investendoli come fosse una perturbazione atmosferica, facendo rivivere le loro memorie lontane e contemporaneamente mettendoli in movimento rispetto al presente.
Una realtà aumentata?
In un certo senso si tratta di una espansione del sensibile, di aumentare una percezione di realtà e di ampliare i confini di ciò che si può vedere attraverso l’immaginazione.
Una sovrascrittura che parte dalla finzione?
Sì, e questo rende visibile anche un modo di operare del festival, che occupa temporaneamente spazi non teatrali, fa i conti con la loro identità e vi sovrascrive mondi immaginifici per creare un riverbero tra l’identità reale dei luoghi e quella fittizia delle creazioni artistiche. È una scrittura che procede per strati e lascia esistere soprattutto gli spazi tra realtà e arte.
Quindi la mappa della grafica?
Non serve per orientarsi in un percorso da uno spazio all’altro del festival, ma per suggerire un’idea di viaggio fisico e immaginario. Un viaggio che poi sia anche rapporto con il sotterraneo e l’oscurità.
Soprattutto con la notte, che è uno dei temi del festival…
La costruzione del festival è partita dal desiderio di portare due lavori di Philippe Quesne e di Mårten Spångberg, che si sono rivelati poi essere, sin dal titolo, due “notti” e che idealmente apriranno e chiuderanno un festival in cui il tema del notturno tocca anche altri spettacoli, da Hearing di Amir Reza Koohestani a Tell Me Love Is Real di Zachary Oberzan alle scene del clubbing di Bolero Effect di Cristina Kristal Rizzo e di Higher di Michele Rizzo, fino appunto a Natten di Mårten Spångberg, una danza long durational che ci accompagnerà fino all’alba e ai momenti teorici e di riflessione, riuniti in una Autoscuola della notte che rivendica una possibilità di pensiero notturno.
E poi c’è il tema del rito…
Le notti del festival hanno delle ritualità potenti al loro interno, a partire da Lumen di Luigi De Angelis e Emanuele Wiltsch Barberio, che vede l’accensione di un fuoco e nasce da una ricerca sulla musica sciamanica, una musica cioè che, come ogni rito, fa accadere qualcosa nei corpi delle persone.
Qual è il verso del rapporto finzione-realtà?
Quest’anno partiamo dalla finzione, rivendicando la possibilità di trasformare il reale attraverso l’immaginazione, rivendicare la capacità di impatto sulla realtà dell’arte e della finzione, che non sono una sfera separata da quella del reale.
Dopo gli scandali delle scorse edizioni, come definiresti oggi la bellezza? È un concetto dinamico?
La bellezza non ha ragioni e non è misurabile, e produce emancipazione. Il nostro lavoro è creare non bellezza ma occasioni di incontro con la bellezza, e credo sia un incontro sempre individuale, perché la bellezza non è democratica e non parla a delle maggioranze, ma mette in moto degli individui.
Quindi chi è per te lo spettatore? Non certo una fissità prospettica.
In un festival come questo, lo spettatore è autore, mette in gioco il suo sguardo e la sua esperienza di un percorso, costruendo così una visione di festival. Forse è utopico, forse semplicemente elementare, ma esisteranno tanti festival quanti saranno gli spettatori che attraverseranno il programma di Santarcangelo.
E il cittadino di Santarcangelo? Come coinvolgerlo in modo formativo, sul lungo termine?
È una questione importante, su cui abbiamo lavorato molto: il festival è molto partecipato, in un centro così piccolo sono tanti i cittadini che ne aiutano la realizzazione e così si sentono partecipi di un processo culturale. Tanti sono poi i percorsi che abbiamo fatto per sensibilizzare ed educare al contemporaneo, a partire da un grande investimento sull’infanzia e l’adolescenza, con i laboratori annuali della non-scuola soprattutto, che ogni anno portano decine di ragazzi a entrare in teatro ogni settimana per giocare al teatro. Nella scelta di continuare a essere molto rigorosi nelle proposte artistiche, abbiamo cercato di presentare dei lavori che potessero essere rilevanti per la città e anche per le minoranze che la abitano – penso ad esempio al progetto di Bouchra Ouizguen che quest’anno coinvolge danzatrici marocchine e donne maghrebine residenti sul territorio.
Quindi un festival non può prescindere dai temi dell’attualità e guardare al Mediterraneo?
È indubbio che la società stia cambiando molto velocemente e le istituzioni culturali fatichino ad anticipare gli scenari che si stanno delineando e a costruire strumenti con cui comprenderli. Credo che il teatro sia un luogo importante, in questo senso, innanzitutto perché è uno spazio potente di compresenza di punti di visti diversi, un confitto, una polis, una comunità possibile. E questo accade non solo attraverso quel che si mette in scena, ma anche con scelte sul piano delle modalità produttive e fruitive.
Quindi con permanenze oltre che residenze?
Certo, non a caso abbiamo cercato di allungare il festival il più possibile e svilupparlo durante l’anno, superando il fatto che sia un accadimento effimero.
E il nuovo è un valore da rincorrere nel programma o è necessario mediare con il classico?
È una grande questione naturalmente, anche perché sarebbe da discutere la differenza tra nuovo e innovazione. Diciamo che Santarcangelo è un luogo in cui si può pensare il rapporto tra tradizione e nuovo, e questo accade sia tenendo vivo il dialogo con la storia di un festival che compie 46 anni, sia dando respiro e vita anche a spettacoli già prodotti che meritano però di essere visti e discussi, fuori da una mera logica di “prime”. Ci sono lavori che hanno informato generazioni di artisti e di spettatori e con cui è importante che anche le generazioni più giovani possano confrontarsi: rivederli e rimisurarsi con questi spettacoli è uno strumento importante per procedere creando differenze e scarti anche radicali. Se parliamo di tradizione in teatro, abbiamo la fortuna di poter pensare non solo ai classici ma anche a una consolidata “traduzione del nuovo” che credo sia un terreno molto fertile per gli artisti di oggi.
Qual è lo scarto maggiore tra le motivazioni di una scelta e quelle di una rinuncia?
La mia non è una rinuncia. Quando due anni fa si è trattato di ripensare a un nuovo triennio di lavoro, mi è sembrato necessario arrivare a mettere a punto un’idea di festival che avesse una sua identità precisa, costruire un profilo e un posizionamento chiaro per Santarcangelo. Oggi credo di lasciare un festival forte e leggibile, pronto a passare in altre mani. E da parte mia credo che Santarcangelo sia un contesto fantastico in cui molte cose sono possibili, ma sono pronta a misurarmi con altri luoghi, altre continuità e modalità di lavoro.
Meglio una direzione solitaria o in team?
Non c’è una risposta, sono i contesti, le sfide o le battaglie in gioco e anche lo stile di lavoro delle persone a fare la differenza: a volte è necessario il coraggio di scelte solitarie, a volte sono fondamentali la condivisione e la pluralità di punti di vista che questa comporta. In ogni caso, in teatro non si lavora mai da soli, lo scambio con il gruppo di lavoro del festival è intenso e crea una bella circolarità tra solitudine e gruppo.
Simone Azzoni
http://santarcangelofestival.com
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati