Quando il ventriloquio va a teatro
Si tratta forse di allucinazione uditiva, di laringoloquia, di disseminazione semantica e rimessa-in-bocca del senso, di inganni verbali, di performance occulte, di bassa teatralità, di intrattenimento di massa o del residuo di antichissime pratiche di divinazione oracolare, possessione e sternomanzia. Quando l’arte di emettere parole senza movimenti apprezzabili di labbra e muscoli mimico-facciali allude a una sorgente diversa dall’apparato fonatorio, interrogando il soggetto e il luogo da cui si prende parola.
“Bella come un forziere”. Con questa immagine icastica, Georges Bataille chiude un breve scritto su La bocca pubblicato in Documents, per suggellare l’immagine potentissima della bocca serrata. Questo risuonatore mobile che nell’emissione consente di modificare la voce in veri morphing timbrici – nel ventriloquio, bloccata l’articolazione mandibolare, barra il parlante e dissocia l’enunciazione dalla sua rappresentazione (l’atto di parlare) fondandosi sull’impressione che la voce sia altrove o promani dalle profondità del ventre.
L’interesse per l’universo ventriloquo si salda con quello per il teatro di figura nella ricerca di Gisèle Vienne, coreografa, regista e artista visiva interessata al rapporto multiforme tra corpo naturale/artificiale e voce, ai gradi di disembodiment del discorso, capaci di erodere e stratificare il gioco delle narrazioni. Dopo Jerk (2008), ricostruzione immaginaria dei crimini perpetrati da Dean Corll, serial killer texano degli Anni Settanta, (dis)incarnato da un ventriloquo che sfaccetta le vicende attraverso la plurivolcalità schizoide delle sue marionette, con The Ventriloquists Convention, presentato al Centre Pompidou e a Centre Nanterre-Amandiers di Parigi, nel quadro del Festival d’Automne, Gisèle Vienne propone un altro affondo sul ventriloquio ricostruendo – tra il documentale e il romanzato – la manifestazione che ogni anno ospita a Wind Havenm, nel Kentucky, la più grande convention mondiale di ventriloqui. Realizzata in collaborazione con lo scrittore Dennis Cooper e con gli artisti-burattinai del Puppentheater Halle, la performance fa risuonare una polifonia di voci per nove ventriloqui con puppet (tra gli altri, Jonathan Capdevielle e Uta Gebert). Vienne e Cooper tessono una partitura testuale per 27 voci che moltiplicano le presenze in un labirinto vocalico (voce del parlante, del pensiero, dell’inconscio), mescolando realtà (materiali di vita degli interpreti) e dissimulazione, per disporre diversi livelli d’identità fonatoria, che si ritrova quasi o del tutto dissolta nelle vicende umane ed esistenziali dei ventriloqui.
È un’operazione di estrema intensità concettuale quella che pone al centro della scena la bocca chiusa di Anna De Mario in I am that am I (2010) di Kinkaleri, lavoro – troppo poco presentato – incentrato su Le serve di Jean Genet. Interessati al “doppio fondo” di questo classico imperniato su “mulinelli d’essere e d’apparenza”, Kinkaleri affronta la natura finzionale al quadrato del testo per forarne la verbalità.
Dopo Io mento, performance esplorativa del dispositivo ventriloquo, e un momento di coalescenza con la conferenza-spettacolo Tu dici?, in I am that am I una donna sulla sessantina, seduta in abito scuro di fronte a un microfono, disdice Le serve. Non vediamo Solange e Chiara, eppure le sentiamo parlare. Si tratta di ingolamento del discorso in una logomachia che è accadimento della/nella bocca. Il testo appare per nascondimento in una gola di carne, alludendo a un altrove della scena. Sprofondamento nei recessi del corpo, nell’apparato che fonda il teatro di parola e la prestazione attoriale. La pronuncia fantasmatica è avvolta da una quadrifonia di rumori concreti, rutti, oscillazioni metronimiche, colpi di glottide e raschiamenti in un soundscape che amplifica i gradi di incertezza percettiva dello spettatore, costretto a mettere in discussione la fonte del discorso e la sua cattura. Kinkaleri non ci pone forse di fronte a una voce rappresentata senza parlante? Questa voce senza bocca – ribaltamento di Not I di Beckett (1972), dove Bocca è un organo (fonatorio) senza corpo – non mostra forse l’immagine traumatica della voce dell’Altro da cui il soggetto è parlato, mettendo in discussione il luogo da cui si parla e con esso la messa in scena del discorso (teatrale)?
Quando il linguaggio coreografico attiva una logica della sensazione cha fa spola tra movimento, immobilità e organi locutori si incontra l’attitudine ventriloqua di Yasmine Hugonnet. Interessata a investigare la nozione di presenza, la performer e coreografa svizzera della compagnia Arts Mouvementés di Losanna, concepisce le sue ultime performance accostando l’estrema duttilità del corpo e la plasticità del sistema fonatorio-laringeo. Dopo essere apparsa alla Biennale College Danza 2015, diretta da Virgilio Sieni, e nella rassegna Umano di Cango a Firenze, con Le Récital des Postures – Extentions, variante per sette interpreti italiani della sua creazione nata come solo, Hugonnet presenta nella cornice del Festival Contemporanea di Prato la versione originale per figura unica. Qui il corpo si denuda per affermarsi e obliarsi, sospeso nella densità anecoica del silenzio. Stilla posture che conciliano intensità di tenuta e abbandono, che si staccano dalla superficie bianca del suolo e del fondo scena. Hugonnet modella la forma corporea, plasma figure esercitate sull’abolizione del volto. Guadagna poi il proscenio e affronta lo spettatore. Con lo sguardo fisso sulla platea esercita l’intensità focale del volto e da lì una voce sembra sollevarsi dall’interno della pelle, per pronunciare infine: “We are dancing together”.
Ma è con il solo La Traversée des Langues, tutto incentrato sulla tecnica ventriloqua, che Hugonnet crea una vera “épopée de la voix incarnée”. In uno spazio nero, il corpo è assoggettato a un procedimento che riduce i movimenti espressivi del corpo alla potenza della fissità. Al centro c’è il gesto fonatorio occultato in gola, sostenuto da diverse posture, stati muscolari e viscerali che riconducono le parole al fatto fisico che dà loro vita. Nelle azioni ventriloque Hugonnet esibisce una phonetic skin che risuona e fa sponda in un sistema di rinvii radicati nella paradossale materialità della voce e nel suo essere altrove, e lo fa infondendo al movimento un moto contrario: dalla superficie all’interno, affondo nella densità molle di un corpo che danza alla rovescia.
In tutti questi casi, in vario modo, l’esercitarsi di questa grana della voce che occulta la fonte, pone in primo piano l’evento corporeo del linguaggio, genera un’intima complicità acustica con lo spettatore, negoziata a partire dalla negazione dell’istanza liberatoria del moto ritentivo/espulsivo dell’espressione vocale. Un irreparabile essere-esposto celato nella dissociazione che fa esperire un’altra idea di corpo e spazio scenico. Si tratta di convocare l’anima, come cassa di risonanza propria degli strumenti musicali, che trasmettono vibrazioni e le spaziano tra i corpi.
Piersandra Di Matteo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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