La nuova partenza del Festival Verdi, a Parma
Il Festival Verdi di Parma riparte in grande stile, dedicando l’edizione 2016 al poeta e drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Spettacoli, concerti, incontri, giornate di studi si svolgono per tutto ottobre fra il Teatro Regio e il Teatro Farnese di Parma e il Teatro Giuseppe Verdi di Busseto.
UNA BUONA RIPARTENZA
Dopo anni difficili, il Festival Verdi riparte di slancio e con un tema preciso. Figura centrale dell’edizione 2016 è Friedrich Schiller, fonte inesauribile di soggetti per i compositori italiani: oltre a Verdi, che ne musica ben quattro opere, pensiamo a Rossini col Guglielmo Tell, a Donizetti con Maria Stuarda, alla Turandot pucciniana ripresa dalla versione di Schiller della fiaba di Gozzi. Il Festival è un percorso incentrato sul rapporto che il Maestro intrattiene, in varie fasi della sua carriera, con il poeta e drammaturgo tedesco. Dalle tappe giovanili di Giovanna d’Arco e I Masnadieri sino alla piena maturità del Don Carlo (le tre produzioni in programma quest’anno), passando per Luisa Miller (tratto da Kabale und Liebe) e La forza del destino (una scena del III atto è ripresa dal Wallenstein), Verdi torna più volte ad attingere dalle opere di Schiller, grazie alla mediazione culturale di Andrea Maffei, cui si deve la prima traduzione integrale in italiano, nell’ambito del salotto milanese che il compositore frequentava con assiduità. Con Il trovatore, che affianca in una nuova produzione il percorso schilleriano, sono quattro le opere prodotte, di cui tre nuovi allestimenti realizzati dai laboratori scenotecnici e di sartoria del Teatro Regio di Parma, e l’adattamento per il Teatro di Busseto di un allestimento. Un impegno che dà corpo alla dichiarata volontà di rilancio del Festival e che vede il Teatro Regio di Parma nuovamente partecipe di una rete internazionale di Teatri d’Opera, complici le relazioni intessute con partner italiani ed europei che hanno consentito di siglare accordi di coproduzione con il Teatro Nacional de São Carlos di Lisbona, l’Òpera di Tenerife e il Teatro Carlo Felice di Genova.
IL PROGRAMMA
Il programma del Festival Verdi 2016, con spettacoli, concerti, incontri, giornate di studi, vive in luoghi storici e amati: il Teatro Regio di Parma e il Teatro Giuseppe Verdi di Busseto, ai quali da quest’anno e per il prossimo triennio si affianca il Teatro Farnese. Un luogo di monumentale bellezza, riconquistato all’utilizzo teatrale grazie a una convenzione siglata con il Polo Museale dell’Emilia-Romagna, che il Festival offre alla creatività di grandi maestri della regia internazionale per una sfida ardua: l’allestimento di un’opera verdiana che valorizzi i limiti imposti dalla conservazione dello spazio museale. Peter Greenaway, “pittore di celluloide” come ama definirsi il regista britannico, sperimentatore di linguaggi e amante dell’arte italiana (sua la straordinaria installazione per il Cenacolo di Leonardo), è stato il primo a coglierla, con la messa in scena di Giovanna d’Arco. Come di consueto, il festival è stato inaugurato il primo ottobre al Teatro Regio con un nuovo allestimento di Don Carlo, affidato alla regia di Cesare Lievi. La seconda opera, in scena al Teatro Farnese, è stata Giovanna D’Arco, affidata alla regia di Saskia Boddeke e Peter Greenaway. Si tornerà al Regio per uno dei titoli più popolari del repertorio verdiano, Il trovatore, nel nuovo allestimento curato da Elisabetta Courir, con le scene di Marco Rossi (premio Ubu per Lehman Trilogy di Ronconi), sotto la direzione di Massimo Zanetti. A Busseto si vedranno I Masnadieri con la regia di Leo Muscato, la bacchetta Simon Krečić e giovani cantanti del concorso di voci verdiane e della Scuola dell’Opera di Bologna.
IL DON CARLO
L’atmosfera di rilancio si avverte dai programmi di sala in cui sono elencate le imprese che, utilizzando l’Art bonus, hanno contribuito per circa un milione di euro al Festival. Teatri stracolmi. Atmosfera da grandi prime. Le produzioni di Don Carlo e Giovanna D’Arco sono profondamente differenti: tradizionale la prima, tutta innovazione la seconda. In Don Carlo, Lievi si sofferma su un punto: tratteggiare una corte in lutto. I colori delle scene firmate da Maurizio Balò sono bianchi e grigi; i costumi (di epoca verdiana, non del Rinascimento spagnolo) neri e grigi. Un Don Carlo in bianco e nero ha un suo fascino. Tuttavia, tra i numerosi filoni del lavoro, Lievi non ne sceglie una dominante, che ne sia il vero fulcro. Di conseguenza, la regia è debole e la recitazione tentennante. Dopo Parma, la produzione andrà a Genova, Lisbona e Tenerife. C’è indubbiamente modo di migliorare la recitazione, ma occorre trovare un concetto centrale di regia. Daniel Oren è sul podio, una prova complessivamente migliore di alcune precedenti, in cui il maestro ha fatto temere di essere diventato un routinier. Buona l’Orchestra Toscanini. Ottimo il coro diretto da Martino Fagiani. Tra le voci primeggiano Michele Pertusi (Filippo Secondo) e Vladimir Stoyanov (Il Marchese di Posa). Pertusi debutta nel ruolo: è applauditissimo, a scena aperta e al calar del sipario, in una parte piena di sfumature (dalla possente all’affettuosa), colte tutte con perfezione ed eleganza. Stoyanov è un veterano, di grande effetto la modulazione verdiana: splendida la scena della prigione e i due duetti con il tenore. Quest’ultimo, José Bros, ascoltato per circa venti anni in ruoli belcantistici, più donizettiani che belliniani, sta effettuando una transizione verso una vocalità pesante, ma il registro è spesso più alto del dovuto. Marianne Cornetti è una Principessa Eboli di lungo corso. Serena Farnocchia non eccelle nella prima parte ma risplende nell’aria finale.
GIOVANNA D’ARCO SECONDO BODDEKE E GREENAWAY
Boddeke e Greenaway si sono letteralmente innamorati del Teatro Farnese, struttura pensata per giochi equestri, tornei e anche battaglie navali, non certo per spettacoli in musica. Vent’anni fa, proposero un film ambientato nella grandiosa struttura. Ora propongono un videomappig che riveste tutto lo spazio, capovolgendone la disposizione della scena e della platea. All’ingresso del Farnese è posto un palcoscenico circolare con accanto l’orchestra proprio davanti alla gradinata, che diventa così l’elemento base dello scenario. Il pubblico è in un ampio declivio che termina di fronte al palcoscenico circolare, abbracciato dalle gradinate e dagli archi. Come nell’edizione di Moshe Leiser e Patrice Caurier, la trama è vista come un sogno. Boddeke e Greenaway fanno grande uso di proiezioni: da gallerie di quadri rinascimentali a foreste. Inoltre, Giovanna è affiancata da due ballerine che rappresentano il suo intimo contrasto: una è guerriera e l’altra bambina. Uno spettacolo quanto mai insolito, anche perché il Teatro Farnese ha un’acustica secca e molto carente, più adatta forse a musica contemporanea ed elettroacustica. Non per nulla, in maggio vi verrà eseguito Prometeo, tragedia dell’ascolto di Luigi Nono. In Giovanna D’Arco, nella prima parte, eccellono l’ouverture, una vera e propria breve sinfonia in quattro movimenti, la cavatina di Giovanna e il duetto d’amore tra la protagonista e Carlo VII. Il resto è frammentario. La figura del padre non assume una forte connotazione. Più coesa la seconda parte, dal concertato iniziale alla dolente conclusione con la morte di Giovanna. L’orchestra I Virtuosi Italiani si è ben cimentata nonostante l’impervia acustica. Buoni il tenore Luciano Ganci e il baritono Vittorio Vitelli. Poco adatta alla parte la giovane coreana Vittoria Yeo, un soprano lirico per un ruolo scritto da Verdi pensando a un soprano “anfibio” come Erminia Frezzolini, dotata di una vocalità molto estesa, fonte di ispirazione verdiana delle pagine più belle. Efficace il coro diretto da Martino Faggiani.
Giuseppe Pennisi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati