La tesi vivente di Claudia Triozzi. A Bologna
Al Raum di Bologna la quinta tappa teorico-perfomativa di “Pour Une Thèse Vivante”, percorso di ricerca che Claudia Triozzi ha intrapreso a partire dal 2011. La performance “Un CCN en terre et en paille”, presentata nell’ambito di “La Francia in scena”, si fonda su una scienza del concreto, percorrendo una chiara prospettiva antropologica e bio-politica.
Un CCN en terre et paille è l’esito di una residenza di ricerca svolta da Claudia Triozzi al Raum di Bologna e quinto capitolo di Pour Une Thèse Vivante, ricerca sulla scrittura d’artista partita nel 2011, accompagnata e co-prodotta da Xing. La nuova tappa della tesi parte dall’interesse per le tecnologie di fabbricazione dei ripari di fortuna, e incrocia in più punti l’oggetto, il problema e il metodo dell’antropologo autore de Il pensiero selvaggio. Il testo di Lévi-Strauss si apre con la constatazione che la scienza moderna risale soltanto a qualche secolo fa, cosa che pone ai teorici dell’evoluzionismo culturale il paradosso del neolitico, apice della maestria raggiunta dall’uomo nelle grandi arti della civiltà: terraglie, tessiture, agricoltura, addomesticamento degli animali. Per fare di un’argilla instabile e facile a sbriciolarsi una terraglia solida e impermeabile occorrono secoli e secoli di osservazione attiva e metodica, ipotesi scartate o convalidate attraverso il controllo di esperienze infaticabilmente ripetute. Ci sono lingue che non hanno un termine per dire “animale” o “spazio”, ma ne hanno decine e decine per tipi, specie e varietà di corpi viventi e vuoti abitabili. Da cui la metafora del pensiero mitico come bricolage, azione progettuale che si esercita su un repertorio limitato ed eteroclito di materiali e mezzi nati per altri scopi e destinati ad altri usi, e in cui la creatività si misura sulla capacità di adattarsi e rinnovare il senso di “quel che c’è” perché risponda ai nuovi bisogni.
LA SCIENZA DEL CONCRETO
I lavori per il Centre Coreographique National prefigurato da Claudia Triozzi perseguono una simile scienza del concreto, componendo un oggetto che è indissolubilmente un artefatto e un’opera a tesi, bricolage estetico e montaggio conoscitivo. Nell’ambiente principale di Raum, una consolle separa senza disgiungerli lo spazio degli astanti, un pubblico seduto a terra secondo disordinate file semicircolari, e quello della dissertazione.
Il nodo: figura multidimensionale e irriducibile alle griglie ortogonali, e prodotto di una maestria delle connessioni reversibili, l’azione scenica non precede e non segue il gesto di creazione del suo “luogo proprio”. Tre performer compongono, occupano e disfano una serie di strutture mobili – cavità abitabile, piano d’appoggio, recinto confinario – avverando un nuovo spazio che scompare al cambiare del focus scenico e del topos argomentativo, e in cui muro e pannelli assumono alternativamente valore di limite e sostegno dei corpi e schermo di proiezione di video-interviste ad artigiani ed esperti a vario titolo dell’edilizia modulare.
La tavola: piano comparativo e forma di conoscenza visiva, la scena è altrettanto sfruttata come spazio sinottico di una classificazione in fieri e aperta, che al procedere della performance conserva e accosta esperimenti, testimonianze, domande lasciate cadere, permette di “tener conto di tutto” e conservare saperi di cui ancora non si vede l’utilità. Niente di quanto ci viene mostrato assume un valore drammaturgico senza che possa essere letto altrettanto bene come tassello di un atlante vivente, nuovo componente di un repertorio il cui carattere frammentario è necessario per mostrare e dimostrare connessioni trasversali, che rimarrebbero inavvertite di fronte a un oggetto compiuto e unitario o subordinato agli stretti legami causali della narrazione spettacolare o saggistica.
PAROLA E CORPO
Come il bricoleur, Triozzi sperimenta e conserva, annoda relazioni e accosta informazioni: il “posto dell’artista” è anch’esso mobile e polivalente, casella vuota che attraversa i vari dispositivi discorsivi allacciati dal “solo con ospiti” – conferenza e convivio, pubblica proiezione ed esibizione spettacolare – e occupa a turno il posto dell’oratore, dell’osservatore, del performer, del conduttore che tiene le fila di un pubblico evento e dell’etnografo alle prese con l’osservazione partecipante. In linea con una teoria critica di cui, da sempre, ha accolto gli assunti e condiviso le questioni – in particolare quelle poste da Judith Butler in A chi spetta una buona vita?, uno dei principali riferimenti filosofici del progetto – Triozzi procede parallelamente a un’indagine sul sapere e a una critica al potere, sondando il rapporto fra l’azione disciplinante e normalizzante dello spazio dato, che assegna al comportamento senso e funzione e dice al corpo i suoi bisogni e i suoi desideri, e bisogni e desideri soggettivi di uno spazio nuovo, eccedente le grammatiche costituite.
Nel raccordo fra il live della tesi mise en scène, e l’intervista differita dal filmato, incontro reale e interazione teatralizzata, la performance testa le regole di discorso che ripartiscono, a monte, unità e insiemi pertinenti e diritti e doveri di parola, con attenzione altrettanto precisa alle modalità del costruirsi un luogo e a quelle del parlare con l’altro. Con voce quasi sempre fuori campo, incalzante ma traversa, che lascia sempre possibilità di deviazione e spostamento, e camera frontale, ravvicinata ma non invasiva, l’intervista sollecita una soggettività che è più anonima e singolare di quella individuale, più del genere dell’habitus professionale che della psiche o della volontà del singolo. La parola è sempre troppo frammentaria e densa di dettagli per fare del soggetto uno stereotipo folcloristico o un attore dilettante suo malgrado, e visi e voci, inflessioni regionali e vezzi irriflessi, sguardi vacui e placidi o spalancati a vuoto compongono una contro-partitura di effetti espressivi irriducibili a un corpo.
SCRITTURA D’ARTISTA
Fulmineamente, durante il flusso della dissertazione, la coreografa raggiunge le tre performer nella struttura polivalente appena realizzata, e all’unisono i quattro corpi “belano”: non sono né fanno le pecore, ma producono un belare, verbo all’infinito, suono penetrante e occhi vacui che danno del tu loro malgrado, che guardano ma non necessariamente ci vedono. Fra la presenza cieca dell’animale e l’occhio ravvicinato dell’antropologo, la “scrittura d’artista” si esercita e ci esercita a uno sguardo allenato alla mobilità fra il flusso dell’esperienza e l’archivio della cultura, fra un presente che è puro “adesso” come quello ovino e un presente che è “l’adesso di una determinata conoscibilità”, di ciò che è dato vedere, sapere, comparare allo stesso momento. Fra l’edilizia contadina organica, frutto di una tradizione secolare e memoria condivisa, e l’alta tecnologia di stampa 3D, che pone medesimi problemi artigianali di gestione e trasformazione della materia (grado di pressione delle frese, punto e profondità di limatura, altezza delle livelle), la tesi vivente mostra e pratica gli effetti di un’intelligenza collettiva, e le condizioni d’esercizio di una creatività che si scontra con la scoperta che nessun luogo esiste da sempre, e che dietro ogni spazio è all’opera una costruzione di cui bisogna conoscere le regole e acquisire le tattiche.
Maria Cristina Addis
www.xing.it/event/395/un_ccn_en_terre_et_en_paille
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