Trionfi e insuccessi dei registi d’opera. Emma Dante e Callixto Bieito
Non tutte le prove registiche sono in grado di conquistare la perfezione. Come dimostrato dalla regista siciliana e dal collega spagnolo, autori di due pièce decisamente diverse. Un Macbeth verdiano dalle atmosfere stilizzate ed efficaci e un Tannhäuser wagneriano che non convince.
Le regie d’opera sono diventate particolarmente importanti, tanto più che nella vulgata il regista ha assunto un ruolo di richiamo, da sempre assegnato al maestro concertatore d’orchestra e, ancora prima di lui, alle grandi voci. In queste ultime settimane. In queste ultime settimane due grandi nomi della regia hanno dato vita ad altrettanti spettacoli, rispettivamente al Teatro Massimo di Palermo e al Teatro La Fenice di Venezia: Macbeth di Giuseppe Verdi, con la regia di Emma Dante, e Tannhäuser di Richard Wagner, con la regia di Callixto Bieito. Per entrambe le opere i compositori hanno scritto, nell’arco degli anni, tre versioni, meno palesi in Macbeth ma piuttosto profonde in Tannhäuser. Il pubblico ha mostrato il proprio gradimento con dieci minuti di ovazioni al Macbeth diretto da Emma Dante e lasciando alcune file della sala dopo il secondo atto del Tannhäuser.
UN MACBETH RIUSCITO
Emma Dante ambienta la vicenda in un contesto atemporale e stilizzato, non nelle nebbie del Medioevo scozzese. Micha von Hoecke utilizzò il Teatro No come schema di riferimento per un allestimento di Macbeth, mentre Robert Wilson trasportò il suo mondo bidimensionale e le sue geometrie astratte e ritmiche nel Teatro Kabuki. Il rosso e il nero, simboli del potere, sono i colori dominanti con attrezzeria e corone d’oro. Anche la battaglia finale è stilizzata: si svolge in una foresta di fichi d’india, mettendo in risalto la tragedia della coppia pluriomicida. Grande rilievo, invece, alle streghe, continuamente ingravidate dai fauni (mentre Lady Macbeth ha rinunciato alla maternità per brama di potere). Il gruppo è numerosissimo e la Dante utilizza, oltre alla sua compagnia, gli allievi della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Un’azione veloce, spedita e in linea sia con la tragedia di Shakespeare sia con la musica di Verdi.
UNA REGIA DA DIMENTICARE
Di Tannhäuser esistono due versioni principali: quella di Dresda del 1843 (molto diatonica, tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861 (con intere sezioni cromatiche) rivista, dopo alcuni mesi, per Vienna. C’è anche una versione detta “di Monaco 1994”, vista nel 2010 alla Scala. Alla Fenice è in scena una versione “ibrida”: il primo atto è quello parigino del 1861 mentre il secondo e il terzo sono quelli presentati a Dresda nel 1843. Un scelta, si pensava, voluta da Bieito, autore di regie trasgressive Invece il primo atto apre in una densa foresta dove lussuriose ninfe e satiri sono nascosti da folti alberi pieni di foglie. Il dramma è incentrato sul menestrello che vuole tornare dai suoi compagni e colleghi e dalla figlia del Langravio di Turingia, Elisabetta, mentre Venere lo vuole trattenere con sé. Non mancano trasgressioni, ma in tono minore.
Diventano più serie dopo la gara di canto e il tentativo di quattro dei colleghi di stuprare in gruppo Elisabetta, che aveva tentato di difendere Tannhäuser, il quale nella gara aveva cantato l’amor carnale invece di quello “celestiale. Non di meglio il terzo atto quando, ancora in un ambiente lugubre e scuro, il rapporto tra Elisabetta e Wolfram (il miglior amico di Tannhäuser) resta quanto meno ambiguo, il coro di pellegrini che rientrano da Roma è avvolto tra le nebbie o in buca, l’ultimo tentativo di Venere di riappropriarsi di Tannhäuser è vagamente lascivo e la morte e il funerale di Elisabetta sembrano algidi. Quindi, una regia (e un allestimento scenico) da dimenticare. E del tutto sconnessi dal senso del peccato e della redenzione al centro dell’opera.
Giuseppe Pennisi
www.teatromassimo.it
www.teatrolafenice.it
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