Andrea Cosentino. La perfomance e il suo doppio tragicomico
Il teatro di Andrea Cosentino si affaccia sul ciglio dell'assurdo per ridere della serietà di chi a teatro cerca invano di conciliare la vita e la verità. Riflettori puntati sul nuovo spettacolo dell’attore-autore, andato in scena alla Fucina Machiavelli di Verona.
Not here e not now. Non tanto perché il lavoro di Andrea Cosentino sia una parodia, un rovesciamento dell’esuberanza presenzialista di Marina Abramović, quanto piuttosto perché anche quest’operazione dell’autore/attore di Angelica è una sottrazione, è un levare e un voler levarsi di torno. “Non qui, non ora” appunto, ma in un altrove che ora è fuga che disperde i fili cui l’attore àncora inesorabilmente il personaggio, ora è afasia, iato incolmabile tra la verità della scena e quella della realtà.
É più vero il sangue di una performer o il ketchup dell’attore? Ci chiede Cosentino.
La verità potrebbe essere accolta dal corpo, il corpo potrebbe incarnarla “senza se e senza ma”. Così fa Giuliana Musso per sfuggire alla finzione del teatro, così fanno Tagliarini-Deflorian quando dilatano il rapporto tra attore e persona fino a farne un frattale. Quella stessa vita-verità in Cosentino è invece annichilita dallo sberleffo, dalla sciocchezza, dallo stupidario degli orpelli che l’attore indossa per dire la sua recitazione e negarla contemporaneamente. Piccoli stratagemmi quotidiani – diremmo parafrasando un noto testo: un nasone finto per fare il verso alla Marina Abramović irrisa anche da La Grande Bellezza, una veste bianca, e quel cadenzare la parola Perfomance che anche Virginia Raffaele e i suoi travestimenti hanno messo nel mirino della comicità facile. Performare è agire. Ma l’azione di Cosentino è un affannarsi per separarsi da quel terribile dover essere visti per dover essere. Non serve essere visti, agire o fare per dire di esserci. Basterebbe un mistero. Invece dalla Commedia dell’Arte in poi è tutto una convulsione.
CONVULSIONI PER ACCUMULO
Ecco, Cosentino porta all’eccesso questa convulsione “per accumulo”, fino a renderla insopportabile e farla sentire nauseante. Persino il baule della Commedia dell’Arte diventa falsa scatola delle meraviglie da cui esce un’unica certezza: non si dà vera vita nella farsa. Per eccesso o per difetto si arriva comunque sempre al grado zero della rappresentazione. Per eccesso di presenza, di accumulo di attorialità, di oggetti che degradano in orpelli, costumi che franano nella casualità, trucco che diventa scollamento per il corpo e maschera che confonde invece di connotare. Per difetto di narrazione, de-costruita e sparsa a terra.
Il mimo e la pantomima (che sono nelle corde di Cosentino) s’invertono i ruoli. Il primo è un surplus di parole debordanti, mentre il secondo è un’astrazione dinoccolata che concerta gesti nell’aria. Il tutto avviene all’interno di due cornici: quella del talk show – dove non si sa chi sia l’emittente, il referente e il destinatario del discorso – e la cornice dei video amatoriali, quelli che, se messi su un social network, avrebbero le visualizzazioni di routine. Scorrono prima del finale le paronomasie di celebri titoli della Abramović: omofonie, inversioni consonanti che deridono la serietà delle performance dell’artista serba. E, come se non bastasse, ecco una citazione anche dai video di Vito Acconci (Open Book) con quell’iPhone usato come alter ego della bocca. Cosa c’è tra la rappresentazione e il suo modello se tutto è una mise en abyme infinita? L’ennesima strada imboccata nel castello di Escher ci riporta al punto di partenza. Senza via d’uscita.
– Simone Azzoni
www.fucinaculturalemachiavelli.com
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati