Motus in scena. Intervista a Silvia Calderoni
Colonna portante dello spettacolo “MDLSX” targato Motus, Silvia Calderoni racconta il suo percorso di attrice. Puntando l’attenzione sul valore del corpo e sulla delicata tematica gender.
MDLSX, lo spettacolo dei Motus che smaschera lo “scandalo” del corpo e della sessualità, ha calcato negli ultimi due anni palcoscenici nazionali e internazionali: da Ravenna a New York, da Sydney a Rotterdam, da Montreal a Cagliari. Dal 5 all’8 aprile è tornato all’Angelo Mai di Roma e abbiamo colto l’occasione per intervistare Silvia Calderoni (Lugo di Romagna, 1981), la quale stavolta ha contribuito anche alla drammaturgia dello spettacolo. MDLSX dispone della ambivalente fisicità dell’attrice come dispositivo tematico e drammaturgico, imperniandosi sull’oscillazione fra l’autobiografia esposta e la trasposizione di un romanzo (Middlesex di Jeffrey Eugenides), confondendo i limiti tra la fiction e la realtà, femminile e maschile, identità dell’attrice e quella del personaggio.
Iniziamo dal posto che ha ospitato a Roma per ben due volte le repliche di MDLSX, l’Angelo Mai. Potresti parlarci del legame di Motus con questa importante fucina culturale, peraltro vincitrice proprio quest’anno del premio Ubu?
L’Angelo per me, Enrico e Daniela è una seconda casa romana. Alla fine del periodo di prove di Let the Sunshine ci regalarono le chiavi, un’ospitalità incredibile! Il lavoro che con grande lotta e fatica sta facendo è fondamentale per tutti. Concede uno squarcio di libertà, lontano dal sistema teatrale odierno, che lentamente si sta sempre più ingessando in griglie che tentano di incastrare l’arte in dati numerici. Il sistema che qualcuno ha immaginato per noi non contempla affatto il tempo delle prove come parte integrante del processo creativo. Mentre l’artista dovrebbe poter avere anche il lusso di prendersi del tempo a perdere, per cercare, provare, trovare. Le sale per le prove hanno spesso prezzi altissimi che non favoriscono una ricerca a lunga durata e posti come l’Angelo Mai sopperiscono a questi bug del sistema. Inoltre il fatto che si muova tra musica e teatro favorisce la commistione di pubblici differenti e offre a prezzi ragionevoli spettacoli di alta qualità, consentendo a chiunque di accedervi. È un posto dove entri e puoi immaginare e questo è bello.
Lo spettacolo si impianta su diverse ambivalenze: innanzitutto quella del tuo fisico, poi quella tra fiction e non fiction, maschile e femminile, romanzo e filosofia. Ma un articolo recente del Guardian titola “Why do we feel we need to know the sex of this performer?” Perché, secondo te, si sente la necessità di indagare la tua sfera privata?
Probabilmente la sfera privata attira maggiormente di qualunque altra cosa. Quotidianamente mi trovo di fronte persone che si interrogano sulla mia sessualità, su qualcosa che per me è una forma di stare e riguardo cui non mi pongo particolari questioni. Le domande degli altri sono state il punto di partenza del lavoro. Da lì però si snodano piani di lettura diversi e mi stupisce che la complessità dello spettacolo si appiattisca sulla mia persona, certo.
Quali credi siano le effettive possibilità e responsabilità del Teatro di agire su problematiche politiche attuali?
Appena finito lo spettacolo, mi vesto velocemente e alleggerisco la tensione andando tra le persone a chiacchierare. Ricevo sempre consensi che mi fanno pensare che qualcosa si sia smosso. La politica è qualcosa in cui si deve impegnare il corpo. E questo in scena avviene. Però mi chiedo se il rischio non sia quello di estetizzare una problematica. Estetizzare a teatro è necessariamente legato al fatto che non siamo giornalisti. Alla replica di Prato, ad esempio, sapevo che ci sarebbe stato il collettivo Intersexioni. Di fronte a persone che lottano quotidianamente su un tema delicato come quello dell’intersessualità, temevo che lo spettacolo risultasse banalizzante. È stato invece visto come un veicolo di informazione su un tema su cui c’è ancora molta confusione. Quell’occasione mi ha dato motivo di pensare che attraverso il teatro si possa dare un contributo. Ma non basta solo affrontare una tematica calda. È politico il posto in cui scegli di fare lo spettacolo, le connessioni che si creano. Bisogna lavorare anche sul contesto. Allora risponderei: penso che il teatro possa diventare un momento di riflessione e che l’artista possa mettere in campo delle domande, ma la risposta spetta sempre allo spettatore.
Proprio quest’anno un altro spettacolo Fa’ afafine, di Guliano Scarpinato, è stato nell’occhio del ciclone proprio perché riflette sull’identità di genere. Cosa credi che abbia cosi spaventato coloro che hanno mosso la petizione “Stop Gender a scuola: NO allo spettacolo Fa’afafine” per impedirne le repliche a scuola?
Innanzitutto non ho visto lo spettacolo e dunque non posso parlarne, probabilmente come non l’hanno visto i più grandi spaventati. In secondo luogo credo che il livello del discorso vada inserito in una geografia di cose complessa: da una parte i Family Day vari, lo sportello anti-gender aperto da poco a Genova… dall’altra il grande fermento che percorre l’Italia in questo momento, manifestazioni, giornate di studi, conferenze… Si stanno spostando degli equilibri che inevitabilmente ne spingono altri. Non è un problema dello spettacolo, né della famiglia che si risente, ma probabilmente della mancanza di un lavoro a tutela di entrambe le parti. Servirebbero cura e lavoro di informazione su determinati argomenti.
Nello spettacolo a un certo punto tu/Calliope sfogli il dizionario per cercare una definizione di te stessa. Quel momento suona come una riflessione su quanto il linguaggio sia responsabile di costruire e veicolare significati che si traducono in preconcetti sociali, come del resto invita a pensare la filosofia femminista e queer. Non credi che forse il problema risieda anche nella terminologia utilizzata? Forse il termine gender, non essendo italiano, crea confusione?
Il termine gender è scomodo, ma probabilmente serve proprio che sia scomodo. Serve anche che qualcuno nel pronunciarlo si senta in imbarazzo perché non sa esattamente di cosa sta parlando. Servirà fino a che non si sapranno gestire i diversi strati di significati, di teorie, di movimenti, di persone cui rimanda. In questo momento serve creare domande, piuttosto che dare risposte. Allo stesso tempo, però, bisogna assumersi la responsabilità di alzare il livello del linguaggio ed essere precisi nel nominare ciò di cui si sta parlando. C’è una moltitudine di diversità che non vogliono essere identificate in modo stabile o normativo, e quello che possiamo fare è imparare a riconoscerle e nominarle tutte in maniera precisa.
Da quando hai iniziato la tua carriera ti abbiamo vista lavorare con la compagnia Valdoca, recitare al fianco di Judith Malina, impersonare al cinema il Kaspar Hauser di Davide Manuli e addirittura di recente sfilare nella passerella di Gucci. Cosa credi che ti abbiano dato queste persone e cosa tu a loro?
Ogni incontro è un mondo, questo è un pensiero fondamentale per Motus. Quello che ti dona, arriva pian piano, non sempre nell’immediato. Tutti gli incontri che ho fatto si stanno ancora sedimentando in me. Credo che nell’arte valga la stessa regola dell’amore: all’inizio dai il meglio di te, che non è pienamente quello che sei. Pian piano emergono altre cose, ma l’altro ormai si è innamorato di quella cosa che gli avevi fatto vedere all’inizio, quindi devi mantenere sempre alta l’aspettativa. Io non ho frequentato scuole se non il progetto di Cesare Ronconi a Cesena, che non riesco a definire una scuola, ma è stata una forte esperienza di vita. L’incontro con Judith Malina, con Manuli, Gucci, sono tutte forme di innamoramento. Impari tantissimo, però non sai esattamente cosa stai imparando in quel momento. Adesso ad esempio sto girando un film di Roberta Torre. Per me stare su un set cinematografico è incredibile perché succedono talmente tante cose contemporaneamente che io, abituata a tenere aperto al massimo il livello di attenzione, mi affatico tantissimo e questa cosa mi affascina. E poi che dire… sono un’attricetta bionda, che vuoi che capisca! [ride, N.d.R.]
– Dalila D’Amico
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati