Corpi senza confini: l’ultimo lavoro della coreografa Isabel Cuesta Camacho
DOM, la cupola del Pilastro di Bologna ha ospitato Impronte, terza residenza nel progetto Contesto ideato da Laminarie Teatro. Una intervista a Isabel Cuesta Camacho ne racconta genesi e sviluppi.
Il lavoro è il risultato dell’azione coreografica sviluppata in loco con danzatori professionisti, la partecipazione di Madoul Jadama, richiedente asilo del Gambia e di Fabrizio Molducci attore professionista. Assieme a loro anche le danzatrici Serena Fossanova, Marina Quassia, Simone Salvaggio, Solène Wagen. Il disegno luci di Marco Gigliotti e i fumetti in scena di Luca Gullì. Coreografia e regia di Isabel Cuesta Camacho danzatrice, coreografa e giornalista colombiana. La danza per lei è medium per raggiungere stati inesplorati della coscienza laddove le decisioni abitano il corpo e non la mente. La sua ricerca studia il movimento e il corpo “politico”, parlando sempre di immigrazione e dinamiche del potere. Il lavoro andato in scena al DOM è uno spettacolo di danza contemporanea composto da quattro opere che trattano il tema dell’emergenza migratoria, dell’indennità e dell’amore in una società colpita da paure e insicurezze.
Ci racconti la genesi del tuo lavoro?
Il tema era il Contesto e su quello ho lavorato. Quindi ho iniziato a capire il quartiere e la sua storia per entrare in relazione con lo spazio, il luogo. Ho cercato di capire gli abitanti scoprendo che molti di loro non sono bolognesi, era quindi necessario cogliere il perché del loro essere lì. E ho sentito delle affinità con il mio lavoro che ultimamente si è occupato di migrazione e immigrazione.
Una contaminazione che nasce dall’incontro con l’altro, anche in senso disciplinare?
Un mio lavoro precedente era costruito sul tema dell’esperienza migratoria e lo sfondo, la colonna sonora dei movimenti erano testimonianze di politici intervenuti sul problema. Ma quando ho parlato con le persone del Pilastro ho capito che non era possibile fare un pezzo su storie emotive, e personali. L’incontro poi con i professionisti che mi accompagnano in questo viaggio ha scaturito un lavoro di gruppo, in cui i i miei linguaggi dialogano con i loro.
Lo spettacolo si occupa dei segni che ha lasciato la migrazione in questo rione con un linguaggio che sta tra giornalismo e arte video, testi e danza.
Ci sono storie e simboli. La storia reale di un attore rifugiato siriano e una danza sull’amore in questo tempo, colpito da paura, quest’ultimo lavoro sviluppa i confine tra le persone.
Il corpo è un confine, un territorio politico e geografico, cosa vedi dal confine della frontiera della tua pelle?
Superare il confine tra corpi è amare. C’è rapporto se l’altro entra dentro di me, io mi perdo e ci si trasforma. E da questo nasce la vita. Il corpo è il centro di una metamorfosi? Si, è ciò che ci permette di entrare nelle cose e trasformarle.
Con quale metodo?
Intuizione ed emozione, come ho scritto in un mio libro ( Il corpo che compone pubblicato nel 2014, ha vinto il premio di ricerca in danza della Secretaria de Cultura de Bogotá nel 2013) in cui descrivo il mio modo di lavorare.
Da dove parti, qual è la leva nel corpo?
Ho delle immagini le cui emozioni arrivano alla pelle e si trasformano in movimento. Sono immagini arcaiche o lontane, altre sono visioni.
Sul corpo i confini sono cicatrici o finestre?
Cicatrici non direi, sono facce diverse, sono consapevole che non sono una. Anche qui a Bologna, ho molti amici accanto a me che sono diventate persone dentro di me.
Cosa vorresti che sentissimo ai tuoi spettacoli?
Vorrei che si capisse che siamo tutti in questa stessa situazione, di “migrazione” e che si entrasse in comunione con le emozioni, sensuali, affettive, politiche, comunque forti.
-Simone Azzoni
http://www.domlacupoladelpilastro.it/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati