I giuramenti del Teatro Valdoca. Intervista a Gualtieri e Ronconi
Giuramenti, la nuova produzione di Teatro Valdoca ha debuttato al Bonci di Cesena lo scorso 12 aprile. La regia di Cesare Ronconi è come sempre accompagnata dalle parole poetiche di Mariangela Gualtieri. L'abbiamo intervistata.
Giuramenti è uno spettacolo corale che ha la forza selvaggia del bosco e chiama al silenzio, al raccoglimento, alla condivisione e all’azione. Uno spettacolo che giura fedeltà all’arte e alla vita.
“Volevamo che questo spettacolo avesse in sé la solennità, la follia, la forza di un giuramento, e anche avesse alleate le forze che il giuramento convoca. In realtà nessun giuramento viene pronunciato. È l’intero spettacolo ad essere giuramento: al teatro in primo luogo, una dichiarazione d’amore che ha il taglio di una bestemmia. E poi alla vita, semplicemente”.
E per fare il teatro ci vogliono “corpi vivissimi, cuori spalancati all’arte e all’incontro, teste che sappiano tacitarsi e farsi comunità teatrale, sia pure provvisoria, ma solidali nella volontà di crescita e di espressione. E infine la comunità del pubblico che viene e completa, fa sì che il sogno si attui”. Mariangela Gualtieri è in questi giorni al Teatro India con il rito sonoro Porpora, fino al 28 maggio. A lei e al regista Cesare Ronconi abbiamo rivolto qualche domanda.
L’INTERVISTA
Dove nasce Giuramenti? E da quale urgenza?
Cesare Ronconi: Nasce da un’urgenza di risveglio, dalla voglia di dire un gigantesco “no” alla onnipervadente sfiducia e allo stesso tempo un gigantesco sì alla vita e all’arte di tenersi pienamente vivi.
Dodici attori, un gruppo, una tribù, un coro. Cos’è una compagnia? Cosa tiene insieme il gruppo?
C. R.: Il gruppo è formato e tenuto insieme principalmente da un regista che, nel mio caso, ha scelto una per una le persone, in un lavoro di incontri durato quasi due anni. E poi da altre figure fondamentali che il regista tiene con sé. In questo caso le colonne sono tre: Mariangela Gualtieri che porta le parole, il verso, Lucia Palladino, maestra del movimento, Lorella Barlaam, maestra di pensiero. Il gruppo si tiene insieme se diventa comunità provvisoria, cioè, se trova doni comuni, se li scambia quotidianamente e se ne nutre.
E come ci si separa dal gruppo quando lo spettacolo è presentato al pubblico?
C. R.: Forse un gruppo che ha fatto una simile avventura non si separa mai del tutto. Perché si sono vissute insieme esperienze che hanno profondamente lavorato in tutti, e dunque è come essere morti ed essere nati insieme a qualcosa.
Il coro. In altri spettacoli avete utilizzato voci all’unisono (penso a Paesaggio con fratello rotto), ma questa volta è un vero coro tragico. Da dove viene la voce del coro? Che valore ha? In che modo dialoga con le voci singole?
C. R.: Il coro non è solo una sommatoria di individui: deve essere accaduto qualcosa fra questi individui perché possano essere coro e liberare quella particolare, sorprendente intensità e unanimità. Ciò che è successo a questo coro, ciò che lo ha profondamente connotato, appartiene all’ordine di grandezze che la mente, la ragione, non sa bene definire. C’entra il bosco e la quotidiana avventura del gruppo nel bosco, fatta in quel particolare modo, cioè a perdersi, lì dove il bosco è più impenetrabile. Fatta in silenzio, o ripetendo insieme versi imparati a memoria. O cantando insieme. Fatta portando nel cuore parole che avevamo prima in qualche modo ricentrato, ricaricato nella riflessione insieme: sacro, caccia, muta, catarsi, comunità, silenzio…
Cosa è un giuramento? Come si giura? Cosa si giura oggi?
C. R.: Un giuramento è secondo i maestri il sacramento della lingua, cioè un ambito in cui la lingua si fa efficace. E quando si giura si chiamano, anche non volendolo, le entità mistico-magiche che presiedono il giuramento: erano gli dei, nei tribunali è la Sacra Bibbia, e ora non sappiamo precisare – ma forse ancora intuiamo. Possiamo forse giurare a noi stessi, per noi stessi, chiamando a raccolta le nostre forze.
A chi sono dedicati questi giuramenti? Chi chiamano alla rivolta?
C. R.: Dunque sì, giurare a se stessi, facendolo però in pubblico. Qui sostanzialmente si giura di salvare il proprio tenersi desti, svegli, vivi. Cioè si prende e si coltiva del giuramento la forza stessa del giurare, quell’osare opporsi a ciò che sembra un fato inamovibile, osare la follia di una speranza, di un nuovo inizio. Possiamo cioè tentare un sollevamento per contagio. E questa è l’impresa irragionevole tentata da questo nostro spettacolo.
Che funzione ha il canto?
C. R.: Il canto, così come il silenzio, come il verso, è un elemento di fusione del coro. Cantando si crea un unico bagno acustico, si è immersi insieme in quelle onde vibratorie, e si lasciano vivere e convivere parti di noi che, pur non essendo razionali, hanno un loro alto sapere.
Il canto insieme è anche fonte di gioia, indubbiamente, di semplice gioia.
Da dove viene la parola poetica? Come dialoga con il teatro? Come trasforma gli attori e gli spettatori?
Mariangela Gualtieri: Noi crediamo in una forza ispirante che si esprime in molteplici arti. Da dove venga quella forza è talmente misterioso e complesso che, per rispondere a questa domanda, gli antichi hanno dovuto inventare il simbolo delle Muse. È vero che seguire il lavoro di Cesare, stare sulla scena delle prove, vedere gli attori e le attrici all’opera, è per me sempre terreno molto fecondo. Il verso diventa la lingua comune del coro, e poiché la poesia è parola capace di indagare in profondità, il verso spinge gli attori verso un punto di autenticità. Si parla una lingua veritiera, verticale, anche spirituale, e questo ha spesso un effetto risvegliante. Lo stesso accade poi con gli spettatori che, ascoltando, si lasciano toccare nelle stesse regioni profonde che l’attore o l’attrice hanno dovuto percorrere individualmente.
Cosa è il teatro, cosa lo tiene vivo?
C. R.: Il teatro è un ardente annuncio di libertà, coraggio e sfida nei confronti del mondo attuale così poco attento alla sottigliezza della vita, e così poco incline all’attenzione plenaria ora indispensabile. È un rito di apprendimento che ci rende più umani, e ci mette al centro delle nostre unicità. Il teatro fa esplodere tutte le zavorre razionali e gli orpelli sovrastrutturali e ci rivela attraverso il corpo vivo dell’attore lo scheletro della nostra mente.
È uno svelamento, non una rappresentazione, e in questo senso ogni sua rivelazione è per sempre.
Il teatro è un’esperienza che ci permette di crescere in maniera logaritmica e può tenere al proprio posto le tecnologie, le quali tentano di potenziarci e liberarci, ma spesso invece ci consegnano a un destino di vuota marginalità.
– Chiara Pirri
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