Camminare con delicatezza. Intervista a Leonardo Delogu
Leonardo Delogu è attore, danzatore, autore. In occasione del Festival Periferico, andato in scena a Modena dal 26 al 28 maggio, l'abbiamo intervistato per scoprire il suo linguaggio e per capire come questo si intrecci a un contesto che si focalizza sulla relazione tra corpo e paesaggio. Partendo da tre parole chiave: sogno, intimità, camminare.
“Camminare con delicatezza” per Leonardo Delogu (Narni, 1981), cofondatore di DOM- insieme a Valerio Sirna, significa relazionarsi con un luogo, contemplare un paesaggio, entrare in un territorio con umiltà e rispetto per coglierne gli elementi, per risemantizzarlo, farlo proprio e diventarne parte. Delogu lo spiega meglio in questa intervista, sollevando interrogativi sul ruolo dell’attore, una figura sempre più polimorfa che si arrende all’indeterminatezza di un’arte destinata a interrogarsi continuamente.
Da dove parte la tua ricerca artistica e come nasce la tua esigenza di iniziare un percorso personale?
Ho frequentato la scuola del Teatro Valdoca nel 2002 e ho lavorato con questa realtà per dodici anni. Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri sono le persone verso cui sento il debito maggiore e a cui devo di più. A un certo punto ho provato l’esigenza di intraprendere un percorso personale. Così mi sono avvicinato al movimento e alla danza approfondendo i miei studi con Raffaella Giordano e con Claude Coldy. Poi io e Valerio Sirna abbiamo aperto una ricerca comune. Posso dire, però, di essere un autodidatta. Negli ultimi anni ho deciso di uscire dalla scatola nera del teatro per vedere come la sua dimensione rituale si rinnovi e sia attualizzabile al nostro tempo. Mi interessa un teatro che si confronti più con le potenze naturali che con le storie degli uomini, che esplori il reale, rubi dalla strada, trovi l’alfabeto dentro le contraddizioni dei luoghi, dentro i movimenti delle piante.
Che valore assegni al gesto del camminare?
Ho seguito le tracce di letterati, architetti, urbanisti, che vedono “l’andare” come mezzo di esplorazione e atto estetico autonomo. Il camminare è la nostra pratica di lavoro da circa otto anni, lo considero un dispositivo per immergersi nel reale, per raccogliere informazioni da reticolare e reinventare in un’altra dimensione, per vedere come l’attore e il teatro diventino vulnerabili e aperti agli elementi circostanti.
Nello specifico, come avviene la relazione tra movimento e paesaggio?
Paradossalmente l’atto di attraversare un luogo è legato alla nostra natura colonizzatrice, quella stessa natura che, immaginando dei riti transitori, dobbiamo attraversare per liberarcene. Una questione fondamentale è la delicatezza. Le persone che camminano sono sempre degli stranieri che entrano nei territori di altri. Intendo dire che serve una postura in grado di percorrere un paesaggio, assorbirlo, aprirlo, modificarlo, fare delle piccole azioni che in qualche modo smuovano un ambiente. Ecco, credo che si tratti di un esercizio di umiltà, di ascolto. Sono molto affascinato dal pensiero di Judith Butler che mi ha portato a interrogarmi su come il transitare possa diventare un’azione politica: ogni volta che i corpi si espongono nello spazio pubblico c’è una dimensione performativa e comunicativa che mette l’esperienza fisica e sensoriale davanti all’elaborazione concettuale e intellettuale delle cose.
Una delle parole chiave del Festival Periferico è, appunto, camminare. In cosa consiste il tuo contributo all’interno di questo contesto?
Sembra impossibile oggi allontanarsi dalle pratiche del corpo che non sono più scindibili dalla mente. La figura dell’attore è cambiata, ha sentito il bisogno di diventare autore, creatore di contesti. Credo sia importante smarginare, rompere le categorie. Ora la scommessa è capire come tornare a essere una comunità senza perdere la dimensione individuale. Voglio dire che, sempre di più, l’arte performativa richiede delle persone che interpretino la contemporaneità, che sappiano rileggerla e trasfigurarla, che creino una società interrogante.
Il mio ruolo all’interno del festival, dunque, è quello di contribuire al suo pensiero fondante, a un’indagine che già da tre anni continua nello stesso luogo. All’interno di Periferico c’è un momento di incontro in cui racconto il mio lavoro. Cerco di rapportarmi alle tematiche del festival partendo dalla mia poetica, da come genero gli spettacoli, dalle forme di relazione che si creano con un territorio, sperando di riuscire a dare un apporto utile a una ricerca molto vicina alla mia.
Recentemente sei stato coinvolto, con altri artisti internazionali, in un progetto importante di cinque giorni, Half a House, nell’ambito del Festival Fabbrica Europa a Firenze. Come si è sviluppato il progetto?
Quest’anno il lavoro di DOM- è molto concentrato sulle pratiche di collaborazione, su come si sta insieme nella sfera artistica attualmente. Half a House punta a unire il lavoro di curatori e artisti mettendo entrambe le figure in un dialogo orizzontale, fuori dalle dinamiche di potere e di leadership e dentro un’esperienza di coabitazione temporanea. Abbiamo vissuto nella Palazzina Ex-Fabbri nel Parco delle Cascine provando a scambiarci informazioni e a capire come tutto questo materiale potesse diventare condivisibile, co-curato e messo nelle mani del pubblico. Fare insieme, essere insieme, collaborare mi sembrano delle azioni che appartengono alla dimensione politica del futuro.
La tua ricerca, dunque, si è concentrata per lungo tempo sul camminare, sull’idea dello spostamento. Ci sono altre “strade” che vorresti intraprendere?
Gli ultimi anni sono stati dedicati alla relazione tra nomadismo e stanzialità. Il nostro è un ragionamento esperienziale sullo stare al mondo, sull’attraversamento e sul fermarsi in un luogo, contemplarlo e creare a partire dalle potenze che abitano il paesaggio. Dopo sette anni di lavoro all’aperto, però, ho molto desiderio di ritornare al ventre del teatro.
Non mi interessa una posizione ideologica sulle cose, ma che avvenga un ascolto in un contesto che includa una pluralità di punti di vista. Devo sempre mettere in campo una relazione che colleghi la mia sensibilità e il mondo che mi circonda per percepire, di volta in volta, quella che mi appare come un’urgenza.
Qual è la tua posizione, come artista?
Come artista mi impongo di stare il più possibile nel vuoto e nell’indecisione, seguendo la strada che mi detta la ricerca stessa. È un atto d’amore per l’essere, un atto che permette di prendere il largo, di andare alla deriva, di perdermi per poi tornare con qualcosa da condividere che non è mai nuovo eppure sempre eccezionale. Siamo una specie di archeologi dell’amore che tentano di riportare alla superficie pezzi di coccio, vetri smerigliati, pezzi d’abisso, da ripulire, rilavorare e rimettere in circolo.
– Alessandra Corsini
www.casadom.org
www.perifericofestival.it
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