La Biennale Danza di Venezia. Reportage (I)
In Laguna è andato in scena l’11. Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia: molti canadesi, molte donne, molti assoli, in linea con la personalità artistica della neodirettrice, Marie Chouinard. Il prossimo focus comprenderà i lavori di William Forsythe e Benoît Lachambre per i danzatori di Biennale College e la trilogia di Alessandro Sciarroni.
Il Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, da quest’anno (e per i prossimi tre) è affidato a Marie Chouinard. Canadese del Quebec, Chouinard dirige dal 1990, a Montréal, una sua compagnia. Lo fa con intelligenza, piglio deciso e segno eclettico. Vuole già parlare italiano: la lingua per lei non è solo comunicazione, ma uno stato della mente attraverso cui liberarsi. Perché è un’artista determinata, fortemente individualista e sempre in tensione tra una nostalgia dell’ordine testuale, e lo si vede nella cura delle forme e nelle scelte prevalentemente visive, e le derive impure della distorsione dei corpi e dell’animalesco. Una modalità di lavoro che ha avuto indiscussi compimenti (fra i tanti, senz’altro Henri Michaux: Mouvements del 2011), così come scivolate didascaliche e più convenzionali (fra gli ultimi lavori, Jérôme Bosch: le jardin des délices, 2016).
NESSUNA STRATEGIA
Nominata, con largo anticipo, nel luglio dell’anno scorso, per Chouinard è già tempo di festival. Ma quest’anno, Biennale Danza più che un festival sembra una retrospettiva: si apre con lavori del secolo scorso e si chiude con un lavoro di nove anni fa! Dunque, si tratta più di una visita guidata nel retrobottega dell’immaginario della neodirettrice. Un organismo/magazzino composto più per grandezze complessive che per scelte di progetto. Come cellule somatiche, ma sempre sotto il controllo di un sistema centrale. Molti canadesi, molte donne, molti assoli: ed ecco già riflessa così tanta parte della sua personalità artistica. Non vi è alcun disegno curatoriale, alcuna intrapresa oltre i confini più prossimi alla sua sensibilità e al suo gusto. Nessuna mappatura dell’esistente. Né alcuna proposta sul rapporto con la città o il territorio. Anche dall’organizzazione a pois degli eventi è impossibile tradurre una qualche strategia: come per l’inconscio, si naviga a vista, fra memorie lontane e anche lontanissime. Almeno per quest’anno.
AVVIO TIMIDO PER LA BIENNALE DANZA
Del resto, il titolo scelto per l’intera manifestazione, genesiaco e paratestuale, First Chapter, suona già più come un’infelice excusatio non petita piuttosto che come un preannuncio dell’inizio. Lo sanno tutti i laureandi: alla consegna della tesi, il primo capitolo è quello più massacrato.
Chi scrive non è imparziale – beato chi può dirselo e crederci – e ha lavorato per quattro anni consecutivi con la precedente direzione artistica, sviluppando una profonda conoscenza delle infinite risorse umane, professionali e intellettuali di questa istituzione. La fatica, le energie smisurate necessarie, tra ricerche, progettazioni, realizzazioni, correzioni, avalli, verifiche, controlli, supervisioni e poi consulti, riscontri, collaudi, sopralluoghi, accertamenti e nuove supervisioni, affinché la macchina tutta produca finalmente l’oggetto dei suoi affanni.
L’avvio è timido: in Campo Sant’Agnese, la risorta compagnia di Lucinda Childs, quest’anno Leone d’oro alla carriera, propone Katema (1978) e un frammento di Dance II (1979). Sono gioielli d’archivio, profondamente segnati dal tempo che li ha prodotti. Infatti non funziona. La danza minimale di Childs finisce per replicare in campo quel flusso delle persone e delle merci così livellante della città, dunque del capitale, che come da programma vorrebbe invece interrompere. Sono brani eseguiti in uno spazio che è a loro indifferente. Anche la musica di Philipp Glass (nel secondo, il primo è silent) finisce per descrivere, del circostante, solo ciò che può essere riconosciuto come replicabile. La merce, appunto.
Funziona invece molto, eccome, l’intervento nello stesso Campo di Benoît Lachambre, pensato assieme e per il gruppo dei danzatori di Biennale College. Smontando concettualmente l’immacolato tappeto bianco a terra come intoccabile luogo deputato dell’evento, Lachambre invita i giovani danzatori ad attraversare lo spazio su semplici mattoni che tutti portano addosso prima di metterli a terra. Replicando così, in qualche modo, e in una estrema, luminosa semplicità, la mobilità sospesa di una città come Venezia. Costruendo occasionali percorsi e prendendo contingenti direzioni, come un arcipelago borbottante in cerca del suo centro. E di quale centro si tratta? Semplice, l’abbraccio. Cosa significa? Che nel centro del tappeto, come lungo le sue periferie, l’affetto non ha bisogno di una gerarchia per incontrare l’altro.
I PUNTI DI FORZA E IL FUTURO
Ma la più vera apertura del Festival è stata prima, nell’incontro con Lucinda Childs, bella, austera, imperturbata da quel po’ di clamore che una premiazione porta sempre con sé; poi con il suo lavoro, fondativo dell’idioma minimalista, dal titolo Dance del 1979 (ripreso nel 2009), anche potenziato, se ce ne fosse bisogno, dallo spazio del Teatro alle Tese che lo ha accolto.
In una fitta alternanza di momenti solistici e sezioni di gruppo, e in stretta partnership con le musiche di Philip Glass e le immagini di Sol LeWitt, la scena è sovrastata da una proiezione che all’origine riproduceva gli stessi interpreti, in una sorta di sdoppiamento e moltiplicazione generativa dei piani; ora, riproduce per molti tratti la versione in bianco e nero originale. Il confronto è impervio e la distanza inevitabile. Gli interpreti in presenza, sempre impeccabili, risultano naturalmente in perdita. Quando appare una giovane Lucinda Childs in sneaker nel video, chi guarda più, sulla scena, la viva figura con scarpetta da sala di Caitlin Scranton?
Quante cose si possono ancora imparare da una coreografia come questa! L’inattingibilità del passato, la rivendicazione di presenza del doppio e della copia contro l’unicità del modello e dell’origine. L’idea che in danza l’archivio è sempre vivente. L’ambiguità di corpi uniformati in un movimento democratico che, mentre rende uguali, ruba il tempo a ogni distinzione perché più conta il flusso della ripetizione, la sua continuità.
Nel 2014 Biennale Danza aveva scelto di consegnare un Leone d’argento (il primo della sua storia) molto importante per tutta la cultura di danza italiana. Nelle future scelte per la direzione artistica, guardare in questa direzione darebbe un più vero senso alle cerimonie di riconoscimento, forse un poco cursorie quando non connesse a una idea capace di generare, sul posto, nuove potenzialità. Restituirebbe forza e coerenza all’investimento di quella coraggiosa scelta, subito dissipata. Perché l’incapacità di capitalizzare è cronica nella cultura del nostro Paese. E occorre ora dire a gran voce che questo ha un prezzo. Infatti, la danza contemporanea italiana non c’è in questa retrospettiva. Biennale non deve assecondare il mercato, deve crearlo. Deve generare nuovi impulsi, disseminare nuove energie, liberare l’opera performativa e la creazione dell’evento dalla dittatura dell’unico, nell’idea francamente meno dispersiva e più ecologica del progettare, per una comunità che non può restare soltanto a guardare.
– Stefano Tomassini
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