Viaggio nei nuovi immaginari della danza contemporanea italiana (II)
A Sansepolcro lo spirito utopico, se davvero precipitato nel reale, può senz’altro rischiarare ciò che si sta preparando, la futura energia della scena contemporanea, piuttosto che il già consolidato. Come accade in The Olympic Games di Marco D’Agostin e Chiara Bersani.
A Sansepolcro, fra le memorie disseminate per il borgo di Piero della Francesca che qui è nato, da quindici anni si svolge Kilowatt Festival. Il titolo di quest’anno, scelto dagli organizzatori per documentare “l’energia della scena contemporanea”, ricalca Il principio speranza di Ernst Bloch. È uno dei più belli e corposi libri di filosofia del cambiamento e di apertura messianica al tempo del futuro. Il carico di pensiero, per un festival estivo, è forse un poco ingombrante, a rischio sempre di un masochismo introflesso, come quando il fiato preso può risultare maggiore rispetto allo sforzo da sostenere. Ma lo spirito utopico, se davvero precipitato nel reale, può senz’altro rischiarare ciò che si sta preparando (il futuro, appunto) piuttosto che il già consolidato. E ogni spettatore avrà senz’altro misurato da sé, ogni volta, il cambiamento e la novità del proprio stupore. Difficile comunque non rimanere soggiogati dalla collezione del museo civico (con la Resurrezione sotto restauro, ma scrutabile, con in più l’esibizione su Luca Pacioli tra Piero della Francesca e Leonardo), dalla casa natale di Piero (didattica e multimediale), e da un’altra mostra temporanea (quella fotografica di Steve McCurry). Tutte visioni che si sovrappongono, nella mente, in un gioco continuo delle forme, giusto in mezzo a non volute ma evidentissime concatenazioni di immagini. Ed eccolo qui, a portata di mano a saper guardare bene, un intero laboratorio di ricerca (visiva e cognitiva, drammatica e postdrammatica, coreografica e performativa) per tutte le arti dal vivo: l’Italia possiede uno sterminato patrimonio capace da sé di generare, senza replicarli, interi immaginari.
THE OLYMPIC GAMES
Al Teatro della Misericordia è andato in scena The Olympic Games di Marco D’Agostin e Chiara Bersani. È la loro prima prova in tandem; si tratta di un feroce apologo sullo scetticismo contemporaneo e su alcune possibili strategie di difesa. Un cuore travolto ha bisogno solo di prossimità, di resistenza, non di fuochi d’artificio. Tantomeno di muri o divieti.
L’avvio è ben congeniato. Un fastidioso presentatore/imbonitore (D’Agostin) ci accoglie, nei decibel, al solo brand di questi giochi olimpici (i noti cerchi, benissimo progettati da Paola Villani), promettendo la luna ma per colmare distanze oramai irrecuperabili. Tutti vengono presentati in questo agone col proprio vero nome, ma in un ruolo conferito, tanto più mediatico quanto meno disputato: così a Matteo Ramponi tocca quello dell’atleta con il complesso di Adone, ma poi sùbito divertito culturista pin-up (stile Bruce Weber o Herb Ritts), fors’anche go-go boy senza club né alcun inutile pudore per l’esposta calvizie. Sempre gioviale, proprio come il gaudente trafitto San Quintino del Pontormo al museo. Poi l’immancabile mascotte: un maestoso elefante di pelouche dalla testa riversa e come dolente (la fortuna non è qui di casa), mentre, sotto il costume, il volto di Marta Ciappina, lo si immagina subito esattamente come quello di Leda nello studio di Leonardo, esposto in pinacoteca.
UN MONDO TIEPIDO
Perché i volti, i ritratti che accompagnano le presenze di questa incredibile performance sono già una revoca delle “divine proporzioni” che l’introduzione della prospettiva ha teorizzato nella cultura di cui i nostri pregiudizi sono da sempre gli eredi. Insieme a uno stuolo di ragazzini intercettati sul posto per comporre la cornice di questo quadro, in realtà incomponibile perché tutto esposto nella retorica della sua persuasione, arriva ultima Chiara Bersani. La festa è breve, non resta che prendere la parola. In tutta la matematica anatomica della sua fragilità, Bersani nel suo speech di apertura dei giochi non fa sconti a nessuno. E tutto, mirabilmente, cambia. La tregua per ogni conflitto che in Grecia la celebrazione dei giochi olimpici comportava, è oggi eredità inascoltata. È forse la voce di un’intera generazione che chiede conto di questo “mondo tiepido” incapace di “rivoluzione” perché solo interessato a “inseguire incubi” più che a “diventare stelle”. I giochi si aprono dunque in questa aria di vetro, montaliana, senza che nessuno si volti, ognuno con il proprio segreto.
Allora tutti provano a tenere in gioco Bersani nel suo sforzo di compiere il percorso del tapirulan multicolore che la insegue. Come se, oltre ogni retorica, l’obiettivo ultimo di farcela, nella corsa, implicasse inclusione e accoglienza. Da qui sequenze di apertura dei corpi e ostensione degli sforzi in direzione nostra, del pubblico. Ciappina prova inutilmente alcuni perimetri: finalmente l’energia esplode, grazie a questa raggiunta fenditura en face con noi che guardiamo e catalizziamo. Poi D’Agostin, a braccia e mani alzate, in un gesto attivo di resa sur place e in forma di dono, promuove contagi per raccogliere risposte. E funziona, eccome: il pubblico risponde, una comunità si produce, come anche un’ipotesi di resistenza. La gara si trasforma in un appuntamento segreto. E non c’è più bisogno di alcuna corsa. Perché qualcosa infine si ricompone.
‒ Stefano Tomassini
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