Il Belgio di Jan Fabre in scena a Roma
Dopo l’anteprima mondiale al Napoli Teatro Festival, dal 30 settembre al primo ottobre il visionario artista belga porta a Roma l'omaggio alla sua terra natale, nell’ambito del Romaeuropa Festival. Con una carrellata di citazioni, autocitazioni e allusioni, contaminando arte e teatro in un crogiolo di immagini.
Cercare i rimandi all’arte in Belgian Rules è un divertente quanto inutile esercizio di stile. Sul folklore ha lavorato quest’anno anche Romeo Castellucci con Democracy in America. Un melting pot che nello spettacolo passato al Politeama partenopeo è un crogiolo di forme paradossalmente speculari alle fabulazioni iconografiche della Raffaello Sanzio.
Vedere l’ultimo capolavoro di Jan Fabre (Anversa, 1958) e non sapere riconoscere in quei corpi macerati negli umori e nelle secrezioni l’arte di Rubens o Rogier Van Der Weyden è una castrazione dello sguardo oltre che dell’intelletto. Ma le false piste che il visionario artista di Anversa deposita sul suo personalissimo omaggio alla terra natia non sono così semplicistiche e agiografiche. Sotto gli scheletri indossati dai quindici performer ci sta una sorniona allusione a Marina Abramovic e lo stesso atletismo dei suoi attori perché non potrebbe irridere certo sforzo artistico di Matthew Barney? Per non parlare di quei piccioni usciti direttamente da un quadro di Max Ernst. Se citazione fosse, allora sarebbe anche autocitazione che nega al frammento scivolato nel testo la sua autorità. Pensiamo ai sui “gatti volanti” che in teatro cadono dalle americane, o alla Pietà (amata dalla Biennale di Sgarbi) qui evocata in un compleanno allo scheletro.
RIFLETTORI PUNTATI SULLA BELLEZZA
Ma Jan Fabre che a Napoli aveva esposto pure dei cervelli umani in silicone allo Studio Trisorio, non è venuto al Festival per dire in quattro ore di spettacolo quanti engrammi ha la sua memoria artistica, o quante porte il teatro possa aprire alla benedetta contaminazione. Il suo è un discorso ancora una volta sulla bellezza. Meno “fumoso” dei lavori portati a Oriente Occidente (Rovereto). Dopo aver perlustrato il corpo nelle sue potenzialità consce e inconsce, la ricerca dei suoi “guerrieri della bellezza”, l’esercito guidato da Annabelle Chambon e Cédric Charron, marcia, vorremmo dire, verso l’unità. L’unità degli opposti come risultato di un crogiolo in cui s’inzuppano nella “nigredo” birra e cioccolato, in un’orgia di carne e desiderio. È solo l’ennesima finzione, la rappresentazione della parabola teatrale su un Paese che è un compromesso instabile di tradizioni e contraddizioni, un carnevale per ipocriti, un nave dei folli.
REGOLE E PARATE
Fabre prova a elencare sotto sforzo fisico le sue regole, il suo manifesto, per normare ciò che norma non ha. Ma la marcia nell’ordine diventa uno sguaiato corteo per majorette che più assomiglia a una Parade di Picasso. La bellezza solo al nominarla scivola nel kitsch, nelle pance molli della crapula e del vizio. Perché il bello è indicibile e se invece fosse dicibile Fabre dovrebbe usare quelle metafore che getta nella poltiglia. È forse la birra una metafora, se la sua schiuma è lo sperma di un nuovo Murakami? E il “Bambino pipì”, simbolo di Bruxelles, cos’è se un’attrice rilascia la sua urina sul palco? Come se la bellezza dovesse essere un’emulsione, una protuberanza della bruttura, quella degli oli di Bruegel o delle patatine fritte (guai a chiamarle French Fries) poco importa. Ensor e le sue maschere che abbracciano la morte possono avvinghiare pure gli ombrelli di Magritte e i bistrattati piccioni essere le colombe della pace. La bellezza ubriaca ondeggia seducendo gli opposti. E i contrari sopravvivono in un carosello, in una danza squinternata che ripete il suo inno alla vita.
‒ Simone Azzoni
Roma // dal 30 settembre al primo ottobre 2017
Belgian Rules/Belgium Rules
TEATRO ARGENTINA
https://romaeuropa.net
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