Pina Bausch vive, viva Pina! Il Tanztheater Wuppertal torna a Brooklyn
La compagnia di Pina Bausch torna al BAM di Brooklyn, con lo stesso programma di apertura del 1984, ed è un tripudio di applausi e consensi ma anche di tante imbranate risate da parte di un’audience più spesso facilona e sprovveduta, da sempre spiazzata e spiazzante.
Nel dicembre 2008, l’anno prima della morte di Pina Bausch, proprio al Brooklyn Academy of Music era stato allestito Bamboo Blues. Modesto, drammaturgicamente un po’ meccanico, ennesimo tributo a un luogo e cultura del globo, l’India in quel caso, ma celebrato più come una fuga (dal declino, dalla vita, dalla Storia) che come la scoperta di un immaginario.
Oggi si assiste invece nuovamente a due suoi immensi classici: Café Müller (1978) e The Rite of Spring (1975). Gli spazi non mantengono la memoria, ma la fanno fruttare, la trasformano in una risorsa costante che deve essere, però, il più spesso possibile alimentata.
Tutto ha funzionato. In Café Müller tempi, silenzi, oggetti, costumi e interpreti incredibili: la compagnia gode certamente di ottima salute. Ed è un piacere vedere in questo passato tutta intatta la forza del nostro futuro. Ma è stata una serata anche di profondo imbarazzo. Ciò che più ha sorpreso sono state le risate dell’audience newyorchese alle scene più psicologicamente violente: la drammatica ripetizione di un abbraccio della coppia sotto sorveglianza che perde continuamente la presa (non ripetizione ma variazione!); i tic che assaltano le personalità al bivio (la mitica interprete di sempre, Nazareth Panadero); le spinte continue e i lanci inflitti al corpo dell’altro sulle pareti di questa scenografia della memoria che, seppur finte, risuonano tutto il male di queste vite impossibili.
Al termine, gli interpreti, agli applausi finali ripetuti e scroscianti e devoti e urlanti di gaudio e approvazione (manco fosse il Super Bowl) sono usciti invece cupi, compassati, quasi ostili e contrariati, in un contegno apertamente di rigetto che non capita spesso di vedere rivendicato in questo modo.
THE RITE OF SPRING
Il folto gruppo, pieno di giovani, per The Rite of Spring (con musica alta, audience azzerata) ha restituito intatta la forza e la tensione di questa lotta contro la morte, su un manto di terra che rende la stessa materia un corpo danzante. Una coreografia che fa del terreno il respiro del vivente: un esercito di trentasei elementi che scava, elimina il superfluo in una continua lotta con l’iconica musica di Stravinskij come per attraversare il deserto dei nostri pensieri. Ciò che resta, alla fine di questa corsa (rituale), è tutto ciò che può sopravvivere, non c’è più spettacolo. Pina sembra tornare a dire: fatevi intrattenere da qualcun altro.
Anche lo sprovveduto e faceto critico di danza del New York Times scrive di potersi in fondo considerare familiare alle opere di Bausch perché le ha già viste in Almodóvar e nel docufilm di Wim Wenders. Che è come credersi di casa nella storia americana perché si conosce il volto dei presidenti stampato sulle banconote. E la tentazione di considerare una tale improvvida, indistinta sommatoria, tanta imperizia culturale come l’inevitabile referto locale di ciò che oggi la politica nazionale qui propone, è quasi immediata.
UNO SPIAZZAMENTO SALUTARE
Ma sarebbe un errore: inutile e fuori luogo. Fiaschi, cadute e incomprensioni di capolavori, europei e non, qui, non si contano più. Ma ciò che è apparso più come un “classico”, per ognuno di questi lontani lavori di Bausch che oggi tornano a noi intatti, è la necessità di farli sopravvivere come argine alla barbarie. Dobbiamo continuare a interrogare questi classici non per riconoscerli, o per farli diventare simili a noi, ma per trovare in loro quello che già c’è in noi ma che non ci è stato ancora consegnato. Ciò che ancora non siamo stati capaci di essere, perché non ancora in grado di riconoscerlo, di immaginarlo. Perché l’esperienza di ciò che è classico, per opporsi alla barbarie, deve sempre procurare una rottura del mondo consolidato, uno spiazzamento del tempo presente.
‒ Stefano Tomassini
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