Danza. Il lato oscuro delle creature di Sasha Waltz
La coreografa tedesca ha inaugurato il Romaeuropa Festival con “Kreatur”, spettacolo collettivo e interdisciplinare, crudo e visionario, nato dal bisogno di esprimere le fragilità dei corpi e del mondo, le paure e le ansie che, tra minacce e prevaricazioni, l’uomo d’oggi vive.
Rischiarati dall’albeggiare di una tenue luce, le figure informi che, muovendosi a piccoli passi nella penombra, entrano nella nuda scena, sembrano galleggiare nel vuoto come nuvole. Sono corpi ricoperti di un bozzolo bianco impalpabile da cui fuoriescono gambe, poi mani e braccia, e dal quale, infine, dopo accoppiamenti all’interno dello stesso involucro, si libereranno. Cellule, ovuli o larve che siano, massa amorfa che lentamente prende consistenza, questi organismi viventi segnano gli albori di una nascita, di un principio di vita. E marcano l’inizio di una danza via via molto fisica, astratta ma con una struttura narrativa interna che da balbettio diventerà parola, da movimento impulsivo diventerà gesto naturale, per affrontare il tema dei conflitti umani. Sono le Kreatur di Sasha Waltz, creature che ci assomigliano nel loro manifestare il dualismo dell’esistenza: fragilità e forza, solitudine e comunanza, giochi di potere, di prevaricazione e sottomissione, di libertà e oppressione, di paure e speranze.
Dopo varie incursioni nel teatro d’opera (tra tutte la magnifica Dido & Aeneas di Pourcell, e Roméo et Juliette di Berlioz) con regie e coreografie musicali alle quali si è dedicata negli ultimi undici anni, il ritorno della coreografa tedesca al suo linguaggio di un teatro-danza che ne ha fatto tra le più autorevoli protagoniste della scena internazionale è stato dettato dalla necessità di parlare dell’oggi, delle ansie e delle paure che viviamo, di quel lato oscuro dell’umanità oggi assediata da conflitti e minacce esterne e, nonostante questo, anzi, proprio per questo, animata dal bisogno di solidarietà e fratellanza.
UN PERCORSO COLLETTIVO
Lo spettacolo Kreatur – al Romaeuropa Festival dopo il debutto, a giugno, a Berlino, nell’ex fabbrica Radialsystem V, sede della compagnia Sasha Waltz & guests – nasce da un percorso collettivo di collaborazioni artistiche all’insegna dell’interdisciplinarietà, coinvolgendo Urs Schönebaum, le cui luci plasmano lo spazio in maniera scultorea; la musica ossessiva dalle sonorità metalliche dei newyorkesi Soundwalk Collective, ricavata da luoghi industriali e spazi di prigionia, e rielaborata su risonanze magmatiche; i costumi, di materiali organici leggeri realizzati col lasercutting, di Iris Van Herpen. Della fashion-designer olandese a colpire visivamente sono le fogge futuristiche, alternate ad altre di stampo primordiale. Sono ora lastre specchianti che avvolgono e inglobano i corpi moltiplicandone l’immagine e deformandola come in un quadro di Bacon; ora minuscoli veli trasparenti dalle forme grafiche sagomate sui corpi seminudi dei performer; ora inquietanti e minacciose corazze di aculei. Unico elemento scenografico è una bianca e sottile parete di scale, collocata lateralmente, in cima alla quale vi è un muro. Qui, a un certo punto, salirà tutto il gruppo, addensandosi e stringendosi sulla strettissima piattaforma per non precipitare, mentre solo qualcuno riuscirà a oltrepassare quel muro. I volti impauriti, i gesti timorosi e supplichevoli di aiuto di alcuni aggrappati alle mani degli altri per non cadere da quello scoglio incapace di contenere tutti, ricordano immagini ricorrenti di chi fugge da orrori in cerca di salvezza. C’è in tutto questo un pensiero in movimento, un’architettura dei corpi, un’idea fisica emozionale, un’energia in assedio, nel muovere la massa di performer in danze scomposte, guerresche o tribali, a tratti ferini, dettati dall’innato istinto del dominio, anche sessuale, sull’altro. C’è un pensiero scultoreo nello sfaldarsi del branco alla ricerca di prede, negli inseguimenti e negli accoppiamenti, nelle alleanze presto disfatte, mentre la scena si svuota e si riempie in più angoli di duetti sparsi, di terzetti plastici, di gruppi in marcia con le braccia spesso alzate, di pose ora brutali e aggressive, ora compassionevoli e umane.
WHERE ARE WE NOW?
Non manca un elemento molto concreto a fare da legame in diverse sequenze: una lunga asse di legno trascinata inizialmente come la croce di Cristo al Calvario, che passa di mano in mano assumendo di volta in volta simbologie diverse, totem, monolite, fino a diventare strumento di tortura o erotico. È arnese anch’esso di violenza sulla vulnerabilità dell’individuo quel trapano usato sui muscoli di una performer, come a voler smontare e rimontare la materia umana a piacimento nei modi che oggi sono pericolosamente concepiti. E non serve urlare “La vita è magnifica” quando invece attorno ci si ferisce e si abusa l’uno dell’altro. Se tutto sembra volgere a una visione cupa della realtà e dei rapporti, il finale vira verso un inno all’amore, con i danzatori che, a coppie, si muovono sensualmente sulle note della canzone tutta sospiri di Je t’aime… moi non plus, di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Ma questo tipo di amore è ancora violento. Dopo il terrore di un istrice che ha punto e imbrigliato i danzatori schierati frontalmente; e dopo una relativa calma subentrata all’ossessività della musica sostituita dal silenzio e dal frinire di cicale e da cinguettii di sottofondo, le coppie si percuotono, si strattonano, si tirano i capelli trascinandosi l’un l’altro, si battono corpo a corpo. Per lasciare, in ultimo, la figurazione di una donna rinchiusa dentro l’involucro di una lastra specchiante. Sola. Sembra così svanire quella speranza della costruzione di una comunità solidale lasciando posto all’indifferenza e all’isolamento. E rimane la domanda aperta – in sintonia con lo slogan dell’edizione attuale di Romaeuropa, “Where we are now?”. Impeccabili i quattordici danzatori dalla struttura fisica molto diversa tra loro, generosi nel comporre con forza uno spettacolo di grande impatto al quale nocciono, nell’insieme, sfilacciandone il ritmo, certe sequenze ripetute che calcano eccessivamente il clima aggressivo, mentre si rivela non necessaria l’aggiunta di parole e di frasi urlate dato che tutto è già espresso eloquentemente nella danza.
‒ Giuseppe Distefano
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