Teatro, corpo e parole. Intervista ad Aurelien Bory
In scena al teatro Argentina il 7 e 8 ottobre, nell’ambito del Romaeuropa Festival, il coreografo Aurelien Bory presenta uno spettacolo ispirato fin dal titolo all’opera letteraria di George Perec.
Il coreografo Aurelien Bory (Colmar, 1972) torna a Romaeuropa Festival, facendo dialogare armoniosamente il corpo e la scena, come un unico elemento, fatto della stessa materia. La scena diventa installazione, macchina, opera viva abitata da un corpo curioso, meticoloso, sempre alla scoperta.
L’impatto poetico e visivo dei suoi lavori è noto al pubblico internazionale e in questa edizione del festival romano presenta Espæce, lo spettacolo che si ispira al lavoro dello scrittore George Perec.
Espæce, il titolo di questo spettacolo, è un neologismo, una nuova parola apparentemente priva di significato che richiama implicitamente una delle opere più importanti dello scrittore George Perec. Puoi spiegarci da dove deriva?
Il termine Espæce nasce dalla sovrapposizione delle due parole che compongono Espèces d’espace (Specie di Spazi). Le ho sovrapposte perché il mio lavoro è stato sempre quello di installare la “specie” nello “spazio”. Inoltre trovo che il dittongo “æ” sia molto “perechiano”, una sorta di palindromo (graficamente le lettere “a” ed “e” sono l’una l’opposto dell’altra). Questo stesso dittongo è stato utilizzato dal giornalista Bernard Magnier per coniare il termine “æncrage” da “ancrer” (ancorare) e “encrer” (tingere d’inchiostro), indicando da un lato l’atto di innestare la propria storia all’interno di una narrazione e dall’altro l’azione dello scrittore che scrive con inchiostro per lasciare una traccia.
Perec ha scritto che vivere è “passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non andare a sbattere”. Potrebbe essere la metafora perfetta del tuo teatro. Cosa del concetto di spazio ti attrae e che relazione questo concetto intesse con la vita?
Questa citazione è la chiave drammaturgica dalla quale si sviluppa Espæce. Viene composta esplicitamente in scena dagli attori, utilizzando il libro di Perec per formare le singole lettere che la compongono. Come se fosse il libro stesso a parlare.
La frase definisce una relazione con lo spazio e allo stesso tempo è divertente con la sua idea di schivare, di non andare a sbattere. Così nei miei spettacoli lo spazio non è mai statico ma in movimento, cambia e si trasforma continuamente.
È la prima volta che ti relazioni a un testo letterario. La parola scritta di Perec sembra corrispondere perfettamente al tuo modo di costruire la scena teatrale. Come hai tradotto le pagine del libro in materia scenica?
Ho incontrato l’opera di Perec nel 2005 attraverso la lettura di Espèces d’espaces. Avevo appena terminato di lavorare alla mia trilogia sullo spazio e ho pensato subito che in questo libro ci fosse qualcosa che mi avrebbe impegnato di nuovo per quindici anni. Me ne sono bastati undici anni per dare vita a Espæce.
È di certo la prima volta che faccio riferimento in modo esplicito alla figura di uno scrittore e alla sua opera, ma in tutti i miei precedenti spettacoli vi è sempre stata una fonte scritta, anche quando non evidente. La scenografia è sempre molto ingombrante e centrale nelle mie opere, ma in questo caso sono partito dallo spazio vuoto: la scena vuota come la pagina bianca di Perec. All’inizio del suo libro l’autore scrive: “L’oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, sarebbe piuttosto quello che vi è intorno, o dentro”. È il teatro nudo con i suoi elementi tecnici, i muri che si trasformano e che creano lo spazio, a definire l’azione e a creare lo spettacolo.
Il gruppo Oulipo, di cui Perec faceva parte, utilizzava tra le sue sperimentazioni linguistiche le cosiddette “contraintes”, dei vincoli linguistici utili a incoraggiare la fantasia. Una volta, ad esempio, Perec scrisse un intero libro senza utilizzare la lettera “e”, la più frequente nella lingua francese. Le tue macchine sceniche sono visionarie. Fungono anche da ostacolo per attori e performer?
La mia scrittura scenica si basa su questo stesso principio. Fu proprio questo che mi affascinò di Perec all’inizio. Io, che guardo al teatro come un’arte dello spazio in dialogo con le leggi fisiche e i corpi che vi agiscono, utilizzo dei vincoli spaziali. Questi vincoli permettono che tra il corpo e lo spazio si crei qualcosa d’inatteso, che non avevo immaginato prima.
Una delle parti più emozionanti dello spettacolo deriva dal racconto della biografia di Perec. Cosa di Perec ritroviamo sulla scena?
L’altro aspetto della scrittura di Perec che mi ha affascinato e commosso è effettivamente quello autobiografico. La storia personale dell’autore è presente in modo criptato in tutta la sua opera. Si tratta della sua storia di orfano, della scomparsa dei suoi genitori, di quella di sua madre deportata e morta ad Auschwitz. Storie che, ancora una volta, parlano del vuoto. In un certo senso l’aspetto formale della scrittura di Perec è profondamente connesso alla sua storia personale, al suo spazio interiore, che pervade la sua opera sotto forma di “tracce”. La traccia è il concetto che meglio riassume la scrittura di Perec. Lui scrive per lasciare una traccia.
Anche in Espæce torni a fondere discipline completamente differenti trovando un punto di congiunzione tra le arti.
Quando si parla del mio lavoro si discute molto di “spazio” ma la “specie” ha per me un ruolo molto importante. In questo spettacolo i cinque interpreti provengono ognuno da un campo diverso delle arti performative, ma, in modo alquanto stupefacente, hanno subito costruito una famiglia. Questo è importante in relazione alla storia di Georges Perec. Lo scrittore che ha perso la sua famiglia non ha mai smesso di cercare famiglie sostitutive nel corso della sua vita: la famiglia adottiva, ma anche quella letteraria (il gruppo Olipo o i suoi scrittori feticcio), la famiglia costituita dai suoi amici… Volevo che ogni attore inscrivesse una parte della propria biografia nello spettacolo, anche se in modo criptato. La scrittura di Perec fa un largo uso della citazione; come lui volevo prendere in prestito qualcosa della vita artistica di ognuno degli interpreti.
Il corpo (quello del circo o degli acrobati) attraversa come un filo rosso tutti i tuoi spettacoli. Cosa del corpo circense e acrobatico ti interessa in particolare?
Il mio lavoro si basa sul corpo: il teatro è fisico e l’attore è prima di tutto un corpo. Con i loro corpi e con la loro arte gli acrobati esplorano la verticalità, la terza dimensione, entrando in dialogo con la gravità. La gravità, la legge dell’attrazione universale, la più importante in meccanica generale, è anche l’unica a cui è impossibile sfuggire.
‒ Chiara Pirri
L’intervista fa parte dei programmi di sala di Romaeuropa Festival
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