Melodramma più che dramma. L’Onegin di Cranko alla Scala di Milano

La messa in scena dell’opera del talentuoso dramma coreografico di John Cranko non convince il pubblico della Scala di Milano. Incappando troppo spesso nei rischi del mélo.

Con uno dei titoli più belli del teatro danzato del Novecento si è conclusa la stagione di balletto 2016/2017 del Teatro alla Scala di Milano. Quella che in avvio, per intenderci, aveva visto come direttore, con dicitura un poco obsoleta, del Corpo di Ballo, Mauro Bigonzetti. Quella per la prima volta presentata alla stampa a sé, come stagione autonoma e, per quanto storicamente più possibile, padrona di casa. Bigonzetti si è poi dimesso pochi mesi dopo la sua nomina: forse anche per le insormontabili difficoltà a far passare una nuova visione, a far crescere in questa istituzione una maggiore consapevolezza del contemporaneo. Virgilio Sieni, ad esempio, ha sempre sostenuto che il contemporaneo in danza non è uno stile, ma un modo di pensare. Bigonzetti ha però realizzato per La Scala un ultimo straordinario lavoro, Progetto Händel (maggio 2017), il cui incredibile successo (19 minuti di applausi alla prima) sarebbe anche un bene, se non proprio un dovere, non disperdere.

Onegin. Photo Brescia e Amisano, Teatro alla Scala

Onegin. Photo Brescia e Amisano, Teatro alla Scala

CRANKO E LA DANZA TESTUALE

Per questa chiusura di stagione è in programma l’Onegin di John Cranko (1927-1973), dramma coreografico del 1965 ispirato all’omonimo romanzo in versi di Puškin. La storia racconta di un giovane avventato e arrogante le cui azioni conducono a morte l’amico e rovina, emozionale e psicologica, per sé. Nel balletto, tuttavia, il personaggio centrale è Tat’jana, che si innamora di Onegin, da cui è rifiutata e anni dopo, nell’opposta situazione, gli ricambia il servizio.
Chi matura presto, vive nell’anticipazione”: l’aforisma di Adorno è perfetto per condensare tutto il magistero di Cranko. Coreografo sudafricano ma europeo per cultura e adozione (fu di base a Londra e poi soprattutto a Stoccarda), fulminato dal teatro di figura prima che dal balletto, danzatore mediocre ma grande osservatore del movimento e del suo potenziale espressivo, troppo presto scomparso all’età di 46 anni, dopo un’intensa vita creativa spesa a collaudare questo modo radicalmente nuovo di pensare il balletto.
Per Onegin, il coreografo scelse di usare musiche non tratte dall’omonima opera di Čajkovskij, ma da altre sue minori (arrangiate da Kurt-Heinz Stolze), per realizzare una più forte consonanza tra drammaturgia e coreografia, tra espressione e movimento. In Cranko, l’espressione viene per prima perché la sua è una danza testuale. L’interpretazione, le passioni sono progressioni di significati capaci di raccontare, mentre viene vissuta, l’azione. L’opzione per la dimensione teatrale, dunque narrativa, della coreografia implica una fiducia nel dialogo come forma capace di risolvere, rappresentandoli, i conflitti. Per Cranko la tecnica è solo un vocabolario: l’interprete deve lavorare sul vivente. Ossia, sulla dimensione dell’essere umano nel personaggio. L’imperativo di ogni interprete non è quello di recitare (né mimare) ma di vivere il personaggio. Come? Seguendo la logica delle intenzioni di movimento, e non quella dei passi. Di quale logica si tratta? Quella della vita, della nuda vita, perfino, per dirla con Agamben (da Benjamin). Questa apertura al vivente è la profezia più autentica di Cranko rispetto all’idea di balletto contemporaneo che gli succedette, e di cui fu un indiscusso precursore.

Onegin. Photo Brescia e Amisano, Teatro alla Scala

Onegin. Photo Brescia e Amisano, Teatro alla Scala

I RISCHI DEL MÉLO

Al debutto, quanto visto al Piermarini è un Cranko ingenuamente classicizzato: i gesti sono quasi sempre senza vera intenzione, ossia inutilmente romantici. Il dramma a volte scade nel mélo, e i conflitti in campo sono neutralizzati in più immediati stereotipi. Fin dall’inizio Roberto Bolle, in potenza oggi un Onegin perfetto e compiuto, è apparso stanco, non ancora pienamente nel ruolo. Il partnering con l’argentina Marianela Nuñez (étoile ospite) difficile, a tratti pesante, mai veramente dispiegato in un’esatta intesa (i famosi twisted lifts sono stati dell’anima, non pericolose acrobazie). L’eros necessario in alcune scene è sembrato algido (alla prima, ai minimi) e dunque la logica delle emozioni mai in progressione. Così il Lenskij di Timofej Andrijashenko ha solo un tempo, quello immediato delle sue reazioni: non vi è alcun ragionevole sviluppo della gelosia che lo condurrà a morte: più spesso è costretto a occupare lo spazio, scalpitando. Anche nel suo momento solistico, se pur il ruolo gli si addica perfettamente, le sequenze non sono mai legate, dal punto di vista espressivo, e tutta la catena di significati che compongono questo straordinario monologo di preparazione alla morte, si perde. L’Ol’ga di Alessandra Vassallo, interprete scaligera di indiscussa forza e presenza, non costruisce profondità alla malizia seduttiva (forse cattiva, senz’altro non innocente) del finto tradimento che condurrà al mortale duello colui di cui è innamorata.
Infine, è davvero fuorviante presentare questo titolo come un dance drama muliebre, perché Tat’jana alla fine cede alla tentazione, e bacia e si dà a Onegin nel carnale passo a due finale, rompendo in fondo il patto matrimoniale. Non è mai questione di questo: non lo farà restare però, perché sa bene che il tempo non ritorna e che non si può soffrire invano. Il dolore trasforma.

Stefano Tomassini

www.teatroallascala.org

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Stefano Tomassini

Stefano Tomassini

Stefano Tomassini insegna Coreografia (studi, pratiche, estetiche), Drammaturgia (forme e pratiche) e Teorie della performance all’Università IUAV di Venezia. Si è occupato di Enzo Cosimi, degli scritti coreosofici di Aurel M. Milloss, di Ted Shawn e di librettistica per la…

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