Folklore e musica nelle coreografie di Simon Mayer
L’austriaco Simon Mayer rivisita, in “Sons of Sissy”, danze e musiche popolari del suo Paese. Le coreografie di gruppo dei balli folkloristici sono rilette in chiave ironica e dissacrante, fino a scardinare il tradizionale modello maschile che ne è alla base, liberandone tutte le potenzialità estetiche. Al 15esimo festival Gender Bender di Bologna.
Performer, coreografo e musicista, Simon Mayer (Austria, 1984) ha fatto della tradizione folk della sua terra di origine l’oggetto d’indagine della sua ricerca artistica. Proveniente, giovanissimo, dall’esperienza con la Vienna State Opera Ballet e, successivamente, con la compagnia belga di Anne Teresa de Keersmaeker, Mayer ha sviluppato una originale poetica coreografica che fonde rituali, musica ed elementi scenici. In SunBengSitting, ad esempio, un energico e coraggioso viaggio nella propria autobiografia, utilizzava un tronco di legno che segava e lavorava in scena facendone una panchina, e mixando ballo folkloristico, jodel e danza contemporanea. In quel giocoso e divertente percorso nel passato alla ricerca d’identità, convocava il pubblico a conoscere la propria vita, con le contraddizioni e l’indignazione di dover sottostare a categorie e convenzioni predeterminate, facendo emergere questioni dialettiche riguardanti la città e la campagna, la propria patria e le terre straniere, l’omologazione e la libertà.
LO SPETTACOLO
Temi che, in modo diverso, si ritrovano anche in Sons of Sissy, spettacolo ospite al Festival Gender Bender di Bologna. Se in SunBengSitting Mayer era da solo in scena, qui forma un magnifico quartetto d’interpreti ‒ Matteo Haitzmann, Patric Redl, Manuel Wagner ‒attingendo ancora una volta dai balli tirolesi. Qualcosa di simile lo avevamo già visto con l’italiano Alessandro Sciaronni nella sua performance FOLK-S will you still love me tomorrow? dove metteva in atto, con delle dinamiche spaziali, la tipica danza austriaca Shuhplatter (che consiste nel battere le mani sulle proprie gambe e calzature) eseguita da un gruppo di danzatori in cerchio intenti a ballare in una ripetitività senza sosta fino a quando tutto il pubblico non fosse uscito. Lo spettacolo di Mayer Sons of Sissy ha all’origine lo studio di questa e di altre danze popolari, ma con tutt’altro esito artistico e performativo. Anche qui, comunque, c’è una gara di resistenza, ma soprattutto c’è una decostruzione dei canoni tradizionali per raccontare altro, passando da un tono più leggero, ironico, allegro e divertente a uno più profondo, interiore e drammatico. Che graffia i sentimenti, rompe la corazza dell’invulnerabilità maschile, accarezza le fragilità, s’insinua nella sensibilità dell’anima. E dei corpi. Da un’armonia iniziale si vira verso il caos, una baraonda che genera conflitti, scardinando dinamiche di movimenti e gesti. A innescare intrecci e tumulti relazionali è la musica che i quattro performer suonano con i loro rispettivi strumenti – una fisarmonica, due violini e un contrabbasso – e dei canti tipici dell’Alta Austria. Si presentano in abiti normali, si sistemano davanti al pubblico, dapprima seduti poi in piedi, si accordano, ammiccano, ciascuno intona un verso ripreso dagli altri, stravolgono i suoni, segnano il ritmo con i piedi. Poi uno si stacca dal gruppo verso il centro e inizia a girare marciando. Lo seguono gli altri. E si formano danze in coppia o con partner invisibili.
TRA GIOIA E AGGRESSIVITÀ
Da qui in avanti s’innescano numerose varianti di movimenti, di roteazioni singole, in coppie, o ricomponendosi in gruppo, accompagnate da un battere di gambe e intrecci di braccia e mani d’insieme poi sempre più scomposti, dove entrano in gioco incursioni con altri strumenti inclusi dei campanacci sospesi. C’è una ritualità dei balli tradizionali ‒ con rimandi a quelli di corte e al roteare dei dervisci ‒ che ritorna e si altera con improvvise corse e grida, salti e strattoni, fino allo sfiancamento. Ansimanti, ritirandosi ai bordi della scena, i quattro, uno per volta, si spoglieranno mostrandosi frontalmente al pubblico in una nudità silenziosa. Si osservano tra di loro, si tastano, si urtano delicatamente sulle guance e in altre parti del corpo come a riconoscersi, quindi, con più forza, danno ritmo al respiro. Nel riprendere gli strumenti e la corsa, due di loro si fronteggiano immobili, osservandosi. È un momento di attrazione, di identificazione di corpi e di anime. Si toccano pudichi, si abbracciano e ballano lentamente. La gioiosità che li aveva pervasi s’interrompe allo schioccare di una lunga frusta che scaccia gli spiriti e divide i corpi. E quel legame sfocia in rabbia e aggressività, in urti all’impazzata nell’aere, ripercuotendosi, per propagazione, su di un altro. Questi sembra assumere su di sé tutto quella veemenza, con una danza disarticolata, uno stato di trance che sfocerà in grida, in moti velocissimi e in cadute. Fino allo sfinimento. Lentamente, cantando sommessamente, gli altri tre lo solleveranno da terra. Un atto di condivisione che ricompone in cerchio il gruppo, in piedi di nuovo insieme. Attraverso questa intensa resa performativa di forza e fragilità, di liberazione e rinascita, Mayer scardina modelli di comportamento sociale e meccanismi interpersonali. Nel flusso d’immagini e sequenze via via decontestualizzate geograficamente e culturalmente, la materia folk trova la sua più chiara rivelazione, manifestando la verità dei sentimenti.
– Giuseppe Distefano
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