La Damnation de Faust. L’Opera di Roma batte La Scala
Il Faust di Hector Berlioz ha conquistato il pubblico della Capitale, grazie a un cast di alto livello. Nel solco della tragedia di Goethe e di Marlowe.
Questa volta, il 12 dicembre, l’inaugurazione della stagione del Teatro dell’Opera di Roma ha battuto quella del 7 dicembre del Teatro alla Scala, non solo per la maggiore affluenza di personaggi della politica e della cultura. Mentre a Milano è stato presentato un Andrea Chénier tradizionale (e un po’ polveroso), tale da piacere al pubblico meno giovane, a Roma si è visto un lavoro innovativo, multimediale, che affascinerà i giovani non solo della Capitale ma anche delle città che lo co-producono (Torino e Valencia) oltre che di altri Paesi (si dice che, dopo “la prima”, la produzione stia attirando le attenzioni di sovraintendenti e direttori artistici italiani e stranieri). Quello presentato a Roma è un lavoro che non era stato concepito per la scena, una “leggenda drammatica”, La Damnation de Faust di Hector Berlioz. Cast di alto livello: dirige Daniele Gatti, regia di Damiano Michieletto; voci di grido, Pavel Cernoch, Alex Esposito, Veronica Simeoni, Goran Juric.
Perché Damnation? Nelle versioni teatrali e musicali di Faust, basato sulla smisurata tragedia di Goethe (una messa in scena integrale comporta di solito sei sere a teatro), il nostro protagonista viene di solito assolto. In quelle, invece, che hanno origine nella tragedia elisabettiana di Christoper Marlowe (doppiogiochista tanto nello spionaggio quanto nel letto), come il Doktor Faust di Ferruccio Busoni, Faust finisce all’inferno. Non solo. Matteo D’Amico e altri compositori contemporanei (come Giacomo Manzoni e Silvia Colasanti) si sono accostati a Faust filtrato tramite le personalissime letture di Thomas Mann e di Fernando Pessoa, spesso con finali ambigui sulla sorte ultima del protagonista.
IL MITO DI FAUST
Al di fuori di musica e letteratura, anche gli economisti si sono interessati al mito nelle sue principali versioni, anche in Italia. È noto il saggio di Guido Carli, Le Due Anime di Faust (Laterza, 1995). Meno conosciuto ma di rilievo il lavoro di Vieri Poggiali, grande studioso di partecipazioni statali e di privatizzazioni, Faust e l’Economia del Suo Tempo, ovvero Goethe quale homo oeconomicus (Editoriale L’Espresso, 2010). Nessuno dei due contiene un “processo” a Faust con una conclusione chiara su quella che debba essere la sua sorte.
Si possono distinguere due filoni: in uno Faust viene redento (seguendo Goethe), nell’altra, dannato (seguendo Marlowe). Attenzione però, la Damnation di Berlioz è plasmata su Goethe, ma il protagonista va all’inferno (come è chiaro sin dal titolo). Inoltre, nelle interpretazioni in Paesi cattolici Faust viene redento dalla Fede a cui giunge tramite il rimorso per la tragica fine di Margherita (ci si basa quasi sempre sull’Urfaust, il “primo Faust” diventato, successivamente, la prima parte dello smisurato lavoro di Goethe) mentre in quelli di tradizione luterana/protestante la “salvazione” arriva tramite le opere per il resto dell’umanità, principalmente d’ingegneria idraulica, ideate e realizzate dal protagonista – tali opere hanno un grande ruolo nella seconda parte della tragedia di Goethe. Questo aspetto è lasciato ambiguo in Boito, “scapigliato” laico, ma che compose due edizioni di Mefistofele in aree cattoliche (quali la Milano del 1868 e la Bologna del 1875, la seconda è l’unica oggi rappresentata; la prima è stata data alle fiamme dal suo stesso autore).
UNA VASTA SINFONIA
La Damnation de Faust è tratta dalla prima parte del monumentale lavoro di Goethe che Berlioz rielabora e sfoltisce utilizzando il testo di Gérard di Nerval, riadattato da Almire Gandonnière e da lui stesso. Non un’opera per la scena in senso stretto. Chiamata dall’autore “leggenda drammatica in quattro parti e dieci quadri”, è stata concepita inizialmente come un’“opera da concerto”. In Italia ne sono state viste realizzazioni sceniche – ricordiamo quelle di Giancarlo Cobelli, Hugo de Ana e Terry Gilliam – che, tranne la terza (in cui si offriva un ritratto della Germania quasi giunta al nazismo), ambientavano la vicenda tra il Medioevo e il Rinascimento.
La versione presentata a Roma, con la regia di Damiano Michieletto e della sua squadra (Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti per le luci, Rocafilm per i video), coglie nel segno: Faust è Berlioz, depressivo e povero in canna, alla ricerca di una strada per superare i suoi problemi più intimi. Il diavolo Mefistofele lo porta per night club e lupanari e gli fa incontrare Margherita, la donna che amerà, ma gli fa stringere un patto che lo porta all’inferno. Evidenti i riferimenti a un altro lavoro di Berlioz: Lélio ou le retour à la vie, un melologo proto-esistenzialista sull’ennui de vivre, composto come seguito della Symphonie Fantastisque. La “leggenda” non ha una vicenda lineare ma, ipotizzando che l’ascoltatore già conosca la trama, propone un vasto numero di scene musicali (non dieci come i quadri indicati nel libretto ma una ventina) in una vasta sinfonia quadripartita. È significativamente più breve delle maggiori opere di Berlioz per il teatro.
LA TRAMA
Il plot (sempre che di intreccio si possa parlare) è incentrato sulla figura di un giovane dei giorni nostri in seria depressione, oggetto di bullismo da parte dei suoi compagni di studi e senza una donna. Faust (Pavel Cernoch), questo giovane sfortunato, cade sotto l’attenzione del diavolo Mefistofele (Alex Esposito), che dopo averlo portato a tracannare con beoni (Goran Juric) gli fa incontrare la donna della sua vita, Margherita (Veronica Simeoni). Il giovane esce dalla depressione tra le braccia di Margherita, la quale, però, somministra troppo sonnifero alla madre al fine di restare sotto le lenzuola con lui una notte intera. Margherita è condannata a morte; per salvarla Faust si vende al diavolo ed è dannato, mentre Margherita, dopo l’esecuzione, ascende al Cielo. Una scena unica, con l’azione nel proscenio e lo smisurato coro in una galleria a gradoni. Ambienti, atmosfere e stati d’animo cambiano grazie a un modernissimo impianto multimediale.
La recitazione è di altissimo livello. Pavel Cernoch, giovane tenore moravo, è in scena per le due ore e un quarto e canta quasi sempre con un timbro chiarissimo, un legato bellissimo, un fraseggio perfetto. Alex Esposito è un mattatore della voce e corpo atletico. Di grande livello Veronica Simeoni, specialmente nell’ardua ballata del Re di Thule.
Daniele Gatti offre una concertazione piena di tinte e rispetta rigorosamente i tempi in questo lavoro, mentre di solito tende a dilatarli. Dieci minuti di ovazione con qualche flebile “boo” alla modernizzazione di Michieletto, che viene subito coperto dagli applausi.
– Giuseppe Pennisi
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