Il Paradiso non esiste. Il teatro di Babilonia
Al Camploy di Verona l'ultimo lavoro dei Babilonia Teatri, che ha debuttato a novembre al Romaeuropa Festival.
Va premesso, purtroppo, che almeno a Verona i teatri fanno fatica a riempirsi e anche il Camploy, che con i Babilonia qualche anno fa era tutto esaurito, non era gremito per la “prima” del gruppo che nella sonnacchiosa provincia di questa città ha preso le mosse e soprattutto le distanze. Prima di essere qui il lavoro è stato addirittura in Argentina, là dove teatro e socialità e sensibilizzazione sull’emarginazione sono cose ben distinte e di difficile conciliazione.
Qui Paradiso è una sorta di terza via. Né Pippo Del Bono, né Armando Punzo. I Babilonia non calano parti come ghigliottine sulla testa dei loro attori “sensibili”, né forzano dentro le camicie della pietà le identità fragili dei loro attori. Piuttosto coltivano, costruiscono la condizione per l’emersione della diversità buona. Non sappiamo onestamente se Paradiso sia il punto di arrivo di una compagnia che seguiamo fino dagli adolescenziali esordi di quell’esuberante Panopticon Frankenstein. Perché nel frattempo i Babilonia Teatri fanno altro (Scarpe di cuoio) e faranno dell’altro, magari un nuovo Romeo e Giulietta, come ci hanno detto. Ma di sicuro è il punto di arrivo della loro visione dell’uomo che, viaggio dantesco a parte, arriva inevitabilmente a specchiarsi crudamente con se stesso. Senza decori, senza fronzoli, senza aggiunte poetiche.
CRONACA IN SCENA
Paradiso è un punto zero, una cronaca, “casuale”, come ripetono i cinque attori in scena. E li chiamiamo volutamente “attori” anche se Enrico Castellani è un tutor meno direttivo di Inferno, Daniele Balocchi il suo poetico collaboratore e Amer Ben Henia, Joice Dogbe, Josephine Ogechi Eiddhom sono più sinceri del neorealismo inseguito da Pasolini. I Babilonia li hanno resi autentici dopo un grande lavoro. Scorre sul palco una cronaca che allude e rimanda. Cogliamo che i ragazzi, scelti assieme alla collaborazione artistica di Stefano Masotti di Zero Favole, hanno vite delle quali sul palco arrivano schegge, dolorose e taglienti. Cocci aguzzi di bottiglia, recita Enrico, ma forse di Montale questi tre ragazzi sono gli “Ossi di seppia”: l’essenziale senza un perché e un senso. Sono lì, scarnificati dentro un Out-ing che adopera a tratti le immagini care al gruppo veronese. Ci sono i crocefissi per questi “poveri cristi” inchiodati dalla vita e dai pregiudizi, ma la regia attinge meno di altre volte dagli effetti retorici. Anzi, anche la proverbiale ironia e autoironia dei Babilonia scivola via nascondendosi tra le pieghe di qualche rosario di parolacce. Meno immagini (forse qualcosa dalle 120 giornate di Sodoma di Pasolini), meno compiacimento nel lirico, perché anche la musica si piega a essere parola che freme e martella scandendo il ritmo di quelle biografie crepate e rotte.
IN FONDO AL POZZO
Il Paradiso del titolo è più quello di Michelangelo Pistoletto che quello dantesco. È qui e ora, lontano da quello perduto tanto quanto da quello irraggiungibile e promesso. Il Paradiso è prima del dolore, prima di sapere e di dimenticare, recita l’attrice del Togo. Il Paradiso è in fondo al pozzo, nel buco nero, altro che luce celestiale. I fari tagliano laterali, sagomano il dolore. C’è il nero attorno ai tre ragazzi, il buio di una vita avara. I “ladroni” appesi a spazzoloni e scope, inchiodati sulla terra come le croci di Ungaretti, sono pronti a risorgere. E Dante? Lui stesso aveva scritto che la luce divina ha illuminato “meno altrove”. Ecco, questo è l’altrove, in qui speriamo che i Babilonia rimangano per un po’.
‒ Simone Azzoni
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