Danza e fraintendimenti. La Dame aux camélias alla Scala di Milano
Per l’apertura della nuova stagione del balletto ritorna, al Teatro alla Scala di Milano, “La Dame aux camélias” di John Neumeier. Drammone coreografico del 1978, inattuale e bellissimo, campionario di una nostalgia retorica e incapace di critica.
La nuova stagione di Balletto della Scala si è aperta con il ritorno di La Dame aux camélias, impegnativo dramma coreografico di John Neumeier. Molti i titoli in programma, una bella festa, sembrerebbe, ma nessun coreografo/a italiano/a in cartellone. Infatti in giro, a disposizione, non ce ne sono. Aspetta un momento: mica è vero! Solo che a forza di ripeterla, questa litania, si è fissata come proverbiale. Abbiamo finito per crederci tutti. E ha generato chissà quanti fraintendimenti. Sarà allora difficile per chiunque rimanere in fila, aspettando il proprio turno, per progredire ed emergere in tanto potenziale di capitale, culturale ed economico, come quello della Scala, senza ridistribuzione.
Il balletto di Neumeier è datato 1978; il prologo e i tre atti sono ispirati all’omonimo romanzo di Dumas figlio, già allestito alla Scala nella stagione 2006/2007. Roland Barthes, a metà degli Anni Cinquanta, aveva ammonito sulla resistente mitologia di questo amore di Marguerite, cortigiana parigina condannata dalla tubercolosi, per Armand, figlio di un esattore generale: amore alienato dalla “classe dei potenti”. Un mito del riconoscimento sociale ma senza rivoluzione perché incapace di critica. Solo che all’epoca del debutto della coreografia, in piena riscoperta, nello strutturalismo testuale di quegli anni, dell’arte della retorica nella vita quotidiana come caratteristica universale del linguaggio e del discorso, il successo di questo lavorone drammaturgico di Neumeier si giustificava benissimo. Oggi, invece, in piena svolta ecocritica e di superamento del testuale, in cui l’etica delle relazioni e il rifiuto del superfluo si oppongono al dominio logocentrato delle parole e delle narrazioni che incorporano desideri e nuovi fantasmi per consumatori sempre più sprovveduti, tanta verbosità sembra funzionare molto meno.
L’artificio è potenziato dall’idea della metanarrazione, già nel romanzo: si parte dalla fine, e per sapere ciò che è successo il protagonista racconta al proprio padre (sempre incombente e sorvegliante) la tragedia della protagonista. Il potere paterno chiude la sua morsa simbolica nel controllo oppressivo dei ricordi del figlio, mascherata di commozione. Il prologo è un trasloco: l’appartamento lussuoso di Marguerite deve essere dismesso: ma che cosa è in vendita? Proprio quello che vedremo: il sacrificio narcisista della protagonista, la nostalgia per un ordine (il modello narrativo del balletto) spazzato via dalla Storia.
LA VERSIONE SCALIGERA
In questa ripresa scaligera, accolta con tepore alla prima, l’insieme resta coreograficamente splendido, il cambio veloce delle scene (di Jürgen Rose) come strategia narrativa quasi cinematografica insegue una tensione agonistica; l’uso dello spazio infatti affonda e deborda in un (ab)uso dei lati di proscenio: come in un’immagine proiettata, qualcosa sembra sempre trasformarsi nel movimento, nell’effetto del montaggio. Ma i ruoli, per lo più, sembrano inadatti, eloquenti al limite del declamato. Inoltre, a partire dal passo a due del secondo atto, una serie di preludi di Fryderyk Chopin (assai diversi fra loro, indipendenti e non comunicanti) è utilizzata per coprire (e variare) la complessa atmosfera di una lunga scena danzata (che comprende il sacrificio di lei e la condanna sociale del padre di lui): è senz’altro una forte appropriazione della musica a favore della danza, se non fosse che la coreografia qui sempre dialoga, recita, teatralizza la scena in cerca di un’ossessiva equivalenza testuale. E tutto questo sbracciare per fare intendere ciò che il corpo saprebbe in altro modo già dire, quando fuori misura può davvero risultare molesto.
Ma poi arriva la scena della resa dei conti finale del terzo atto, il pas de deux in nero che è un capolavoro di invenzione e di scrittura di Neumeier, un testo coreografico di riappropriazione e di autodeterminazione dei due protagonisti attraverso il movimento che andrebbe studiato e analizzato come qualcosa di rivelatore e divinatorio. Qui Roberto Bolle è partner impeccabile e Svetlana Zakharova riesce a imporsi sull’ingrato ruolo. Allora tutto sembra tenersi. È come quando scorrendo una playlist trovi il nome di David Bowie e ti verrebbe da alzare gli occhi al cielo, ma poi pensi a Heroes e allora ti dici che va tutto bene.
‒ Stefano Tomassini
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