I Motus, il teatro e il presente. Intervista a Daniela Nicolò
Il 3 gennaio 2018 Motus ha debuttato al Festival Under the Radar di New York con “PANORAMA”. Il progetto segue il percorso intrapreso con “MDLSX”, affrontando il tema dell'identità nomade, stavolta attraverso una caleidoscopica biografia collettiva. Ne abbiamo parlato con Daniela Nicolò.
PANORAMA, ultimo progetto dei Motus, estende il tema dell’identità nomade inaugurato con MDLSX ai confini geografici e alle nazionalità imposte. Lo spettacolo coinvolge i membri della Great Jones Repertory Company, il gruppo interetnico di attori e attrici residenti a La MaMa. A partire dalle loro esperienze biografiche e diasporiche, Motus, con il supporto del drammaturgo Erik Ehn, immagina nuovi panorami esistenziali.
Dopo il debutto newyorkese, il progetto sarà presentato in Europa il 14 e 15 marzo 2018 al Vooruit di Gent, in Belgio. Il debutto italiano sarà dal 2 al 7 maggio 2018 alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano. Il 10 e 11 maggio 2018 PANORAMA sarà presentato all’Arena del Sole di Bologna. Daniela Nicolò racconta i dettagli.
Ci racconti questa nuova tappa newyorkese del percorso di Motus?
Abbiamo da anni una relazione intensa e privilegiata con questa città folle. Nel 2011 abbiamo presentato ad Under the Radar Too Late! (parte del progetto Antigone). Lo spettacolo ha avuto una risposta strepitosa di pubblico e critica, così come quelli successivi, ospitati da La MaMa: Alexis. Una tragedia greca, The plot is the revolution, Nella Tempesta e MDLSX (tutti recensiti dal New York Times che vi ha dedicato ampi spazi di approfondimento ‒ che purtroppo mancano sempre più alla carta stampata italiana). In un certo senso abbiamo più continuità con il pubblico di New York che con molti teatri italiani!! Poi l’invito dalla curatrice artistica a lavorare con gli attori della Great Jones. Per noi è stato chiaro sin dall’inizio che volevamo “usare” questa possibilità per cercare di immergerci il più possibile nella società americana, analizzare il razzismo serpeggiante che si respira per strada e mettere il coltello nella ferita proprio dopo la nefasta elezione di Trump: ovvero indagare il rapporto del Paese con le sue linee di confine. Per questo, in un certo senso, non ci pare un nuovo progetto, ma la prosecuzione “esplosa” della ricerca precedente, in MDLSX, sul superamento dei confini in tutti i contesti.
Se in MDLSX siete partiti da testi pre-esistenti, come il romanzo di Jeffrey Eugenides e il pensiero queer di Paul B. Preciado, Rosy Braidotti, Donna Haraway, Judith Butler, quali sono le fonti in questo caso?
Se con MDLSX abbiamo creato un gioco di auto-fiction in cui tutti credono si tratti della biografia di Silvia, nonostante lo script sia un adattamento del romanzo e di estratti letterari e filosofici, per PANORAMA abbiamo lavorato all’opposto: tutto ciò che si dice in scena è vero, anche se spesso pare incredibile. Il testo proviene infatti da un delicato lavoro di riedizione delle lunghe interviste fatte ai membri della compagnia, che con il drammaturgo Erik Ehn abbiamo poi composto in uno script originale, dove le identità si mescolano a creare un’unica biografia immaginaria. Chiaramente ci sono come sempre molti libri che ci affiancano, ma solo dal punto di vista teorico, ancora i testi della Braidotti e della Butler. Il primo fra tutti, però, è forse il libro di Wendy Brown, Walled States. Waning Sovereignty.
Come è nato l’incontro con la Great Jones Repertory Company, residente a La MaMa?
Durante il 2016-17 abbiamo tenuto in vari Paesi una serie di “Furious Diaspora” workshop: a Rotterdam (Festival De Keuze), Barcellona (Festival Grec), Rio de Janeiro (Festival Atos De Fala), Helsinki (Baltik Circle Festival). Il titolo viene dal Manifesto “Noi diciamo rivoluzione” di Paul B. Preciado (citato a sua volta in MDLSX). I laboratori erano incentrati su un lavoro fisico di costruzione (e scrittura) di identità/biografie immaginarie, da far poi interagire con casuali passanti in spazi pubblici della città. Il primo fra questi workshop, nel gennaio 2016, è stato a La MaMa di New York con la Great Jones Repertory Company (la storica compagnia fondata da Ellen Stewart, che continua a esistere anche dopo la sua scomparsa nel 2011 e recentemente si è arricchita di nuovi giovani attori). Quando la direttrice artistica de La MaMa (Mia Yoo) ci ha invitato a creare uno spettacolo con loro, abbiamo deciso di focalizzare la ricerca sull’esperienza di questi artisti che si sono spostati nella megalopoli americana, intraprendendo la lunga battaglia per quel pezzettino di plastica chiamato Green Card. PANORAMA nasce quindi da questi tracciati biografico-geografico-esistenziali.
Nella presentazione del progetto scrivete: “PANORAMA nasce dall’idea di sviluppare una riflessione aperta sulla necessità umana di essere in movimento, di smantellare confini (anche artistici)”. Dal punto di vista dei linguaggi artistici, qual è la forma che assume lo spettacolo?
Le interviste registrate sono divenute così interessanti che abbiamo deciso di mantenere questa formula scenica. Abbiamo utilizzato la forma del finto casting cinematografico. Tra l’altro in questa città anche il mercato del cinema e del teatro è suddiviso in audition per asiatici, afroamericani o latinos… e, come si può immaginare, i ruoli (per gli stranieri) sono sempre stereotipati e segreganti. Stiamo lavorando proprio su questo, aggiungendo al reenactment del casting alcune immagini evocate dalle loro storie e rielaborate con vari espedienti cinematografici. Il resto non posso raccontarlo, anche perché ciò che avviene nella nostra scena, sempre così stratificata, non si può ridurre a un unico livello descrittivo.
A ben guardare, lo spostamento continuo dei confini caratterizza la vostra ricerca da sempre. Già il vostro nome, Motus, rimanda a un movimento continuo e nel 1996 scrivevate nel Patalogo: “Siamo in fase post… E cosa viene dopo? Qui non si può prescindere dalle mutazioni in corso… Perché continuare a parlare di riferimenti, di memoria e tradizione, di recupero archeologico … come se tutto non fosse già QUI sotto gli occhi di tutti. Qui si sta immersi in una condizione di continui trapassi inconsapevoli, a-direzionali che scolpiscono i nostri processi per-cettivi e creativi…”. Sono passati più di venti anni da allora. Come vedete il QUI di adesso?
L’Altro, il non-conforme, per idee politiche, religiose, sessuali, di provenienza geografica o razziale, anziché essere vissuto come arricchimento antropologico è temuto. Tutte le politiche delle nuove destre conservatrici lavorano su questa demonizzazione. Fondano la loro retorica populista e protezionista sulle debolezze e incentivano spesso tristi “guerre fra poveri”, creando nuovi “Haters”, che hanno la stessa funzione dei “nuovi muri” che vengono oggi costruiti in Europa: separare, chiudere per proteggere la debolezza degli Stati nazione, come scrive Wendy Brown in Walled States. Waning Sovereignty, che citavamo. Se devo parlare del QUI allora non posso non partire da questo e devo riferirmi a dove sono ora, ed è proprio negli Stati Uniti, Paese simbolo che, con la nefasta scelta di un presidente come Trump, sta contagiando il mondo e distruggendo i pochi rimasugli di società civile. Il qui per noi ora è davvero drammatico e il domani lo è ancora più. Questa lunga residenza americana anziché permearci dello stereotipato positivismo di questa cultura, del Yes we can, ci sta sempre più deprimendo.
Che contributo può dare il lavoro artistico per modificare questa situazione?
Come molti degli attori ci avevano detto nelle interviste, pensavano che di fondo l’elezione di Trump avrebbe scatenato e ri-coagulato forze insorgenti. Ci sono state marce, sit-in come al solito, ma niente è stato scalfito (“il potere del potere è immenso”, dice l’attrice turca in PANORAMA). Con forza crediamo ancora nelle coalizioni, nelle minoranze resistenti, nelle “temporanee alleanze di corpi”, per citare la Butler, ma lo spirito propellente dei primi Anni Novanta si è dileguato, ora siamo immersi in una dimensione distopica che ci porta a immaginare anche l’arrivo di una guerra in Europa. Quindi che resta? Il lavoro artistico, come amplificazione dell’umano, come critica impietosa e spazio per re-immaginare è l’unica nostra vera possibilità di incidere nel reale. Ma per reinventare il reale occorre buttarcisi dentro a capofitto, con furore e con amore. Ci proviamo.
‒ Dalila D’Amico
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