Teatro. Il sermone mancante e Willem Dafoe
Per “Quartieri di vita”, la sezione invernale del Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio, il regista Romeo Castellucci, attraverso un rito devozionale, affronta una orazione sulla fede, Dio, la paura, la morte, ispirandosi al breve racconto di Nathaniel Hawthorne “The minister's black veil”.
Ricreare un austero impianto di partecipazione fisica ed emotiva, fuori da usuali canoni teatrali, allestendo un rito officiante pregno di parole chiare e misteriose all’interno di uno spazio carico di suggestione artistica quale è la trecentesca Chiesa di Donnaregina Vecchia, luogo sconsacrato nel Museo Diocesano di Napoli, è operazione che solo un regista come Romeo Castellucci, artefice di epifanie sceniche inedite, poteva attuare. Ancor di più elaborando ex-novo una scrittura innestata sul racconto omonimo del 1836 di Nathaniel Hawthorne, The minister’s black veil (Il velo nero del pastore), una parabola aperta a interpretazioni e letture il cui senso si presta ad affondi tematici di natura non solo religiosa ma di più ampio e universale spettro umano. Chiamando in causa Chiara Guidi, alla quale ha dato il compito di scrivere un’immaginaria omelia, di declinazione cattolica, tenuta dal reverendo del racconto, della quale non esiste traccia testuale, Castellucci mette in atto un evento di rigorosa risonanza partecipativa, di puro ascolto e di scarna teatralità, affidando all’oratoria di un solo attore, Willem Dafoe, tutto il peso di una creazione epifanica.
LA TRAMA
Questa ha avuto la sua prima rappresentazione nel 2016 ad Anversa, nella Chiesa di San Michele, e ora è approdata a Napoli, a “Quartieri di vita”, la sezione invernale del Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio. L’origine di The minister’s black veil è il racconto di Hawthorne ‒ scritto in epoca di puritanesimo nel New England, dove il concetto del male e del peccato, ineliminabili, era tema ossessivo nella vita degli uomini ‒, in cui si narra di un ecclesiastico che un giorno, per il consueto sermone domenicale davanti alla sua comunità, si presenta in chiesa con il volto coperto da un crespo nero che da quel momento, e senza dare spiegazioni agli sconcertati fedeli, non toglierà mai più. Neanche alla sua fidanzata Elisabetta svelerà il motivo di quel gesto estremo, quella scelta di isolamento non dal mondo ma dalla visione del mondo. Una sfida lancinante che lui stesso pagherà in prima persona con un prezzo di altissimo dolore. Che rimarrà un mistero. Lo scrittore potrebbe essersi ispirato a un evento reale, quello cioè di un pastore colpevole di aver ucciso accidentalmente un amico, e che, per espiare quella colpa, indossò un velo nero durante il funerale dell’uomo decidendo di tenerlo fino alla morte. O forse si rifà al peccato di un adulterio compiuto dallo stesso ministro. Il mistero di quel volto ci arriva ancora oggi “al fine di renderlo vivido e urgente”, spiega Castellucci nelle sue note di regia, incarnato da Dafoe in tonaca nera e volto coperto lasciando visibile solo la bocca e la sua marcata mascella, che entra preceduto da uno scampanellio. Avanza lungo la navata dalle arcate gotiche, raggiunge l’altare vuoto, si inchina, per posizionarsi subito al principio dell’abside davanti al leggio con la Bibbia in mano. Deposta, darà inizio al suo sermone rivolgendosi al pubblico di spettatori/fedeli seduti nei banchi della chiesa tenendo in mano ciascuno un libretto nero contenente il testo, invitati anche, in alcuni momenti, a rispondere e pregare con lui. Quello cui darà fiato il reverendo Hooper è un ininterrotto – solo pochi momenti di silenzio ‒ e articolato flusso di parole – “… Sembrano le parole di un attore di teatro”, afferma quando cita San Paolo che dice “Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me” – che iniziano col mettere in evidenza la condizione di stoltezza dell’uomo e l’illusione di vedere. L’omelia attinge dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, con citazioni e rimandi filosofici, per toccare argomenti riguardanti soprattutto la fede in contrasto con l’incredulità, il credere senza vedere. Sfiora gli interrogativi che avvinghiano l’anima e le sue profondità, il dubbio, il senso di peccato e di espiazione, di caducità, di salvezza, di verità, di conoscenza, giungendo a raccontare, mentre scende tra i banchi dei fedeli, il tormento dell’esperienza di trasfigurazione interiore avvenuta durante una notte con l’apparizione di un misterioso essere volatile, forse un angelo, col quale dialoga e che infine gli consegnerà una chiave. Chiave che in ultimo l’attore mostrerà alzandola, per poi buttarla a terra. E forse sta in quel gesto il senso ultimo di tutta l’orazione: la chiave come segno che apre e chiude a ogni conoscenza, alla luce o al buio della fede, alla morte e alla vita. Mentre l’attore si avvia verso l’uscita percorrendo spedito la navata, si spengono dietro ai suoi passi le luci della chiesa. Lì dove gli occhi non hanno più nulla da guardare, forse è da lì che può iniziare la vera visione. Quella interiore. Quella che potrà farci incontrare veramente con l’altro, diverso da noi, con tutto il suo universo interiore, con tutta la sua umanità.
FEDE E IDENTITÀ
L’interesse di Castellucci in direzione di un mistero della fede e dell’identità, con tutte le relative vertigini di senso del caso, si compie con questo secondo percorso esplorativo del racconto di Hawthorne. Lo stesso testo, infatti, era già stato oggetto di una messinscena totalmente diversa da questa odierna, dove una ingegnosa macchineria teatrale di tipo installativo, cupa ed enigmatica, percossa da sonorità elettroniche, evocava arcane metafore legate al segno di svelare/nascondere attraverso gli artifici di un sipario che, aprendosi e chiudendosi, fagocitava letteralmente la visione. A creare un ulteriore legame tematico non si può non ricordare un altro spettacolo di Castellucci, Sul concetto di volto nel figlio di Dio, dove, invece che nascosto, il volto pittorico del “Salvator Mundi” di Antonello da Messina campeggiava prepotentemente sullo sfondo dell’intera parete della scena fissando gli spettatori tutto il tempo. Sotto quello sguardo amorevole, misericordioso, c’era l’umanità di un padre incontinente, e di un figlio paziente che lo puliva davanti ai nostri occhi, fino a rivolgersi rassegnato più che disperato a quel Cristo imperturbabile, come a chiedere aiuto. E, a un certo punto, irrompevano delle figure che provavano a strappare la tela, ma invano, perché quell’immagine tornava davanti alla vista dello spettatore intatta.
‒ Giuseppe Distefano
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