Danza. Corpi queer e molti applausi alla Scala di Milano
Un trittico contemporaneo, tutto riflessivo sui temi di eros e morte, è andato in scena per la Stagione di Balletto del Teatro alla Scala di Milano. La prima rappresentazione è stata dedicata alla memoria di Elisabetta Terabust, étoile italiana e direttrice in passato anche del Corpo di Ballo scaligero, di recente scomparsa.
Una nota critica e studiosa di teatro ha detto, una volta, mentre redarguiva chi sostava rumoroso nelle famose sale della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo di Milano: “Occorre avere il senso del luogo”. Quanto è vero! Pure per una coreografia? Il piano si sposta ma la sostanza no. Occorre avere il senso del tempo nel riportare alla vita gesti e intenzioni di capolavori del passato. E dunque anche una intera serata dedicata al contemporaneo può avanzare pretese di adeguamento, ammonimenti sul filo dell’infedeltà.
Al Piermarini ha debuttato un nuovo lavoro in prima assoluta dal titolo Mahler 10 della coreografa canadese Aszure Barton. L’apertura del sipario è garantita dalla silenziosa, bellissima ed enigmatica presenza di Stefania Ballone, cui segue un’esplosione del movimento dal fondo che sembra generarsi quasi senza un centro, e la serata promette bene. Ma le idee finiscono subito: dalla libertà compositiva à la Trisha Brown si passa a schemi e gerarchie prevedibilissimi di tanto rifritto modern americano. Dell’inquieta incompletezza piena di ricatto anche psicologico dell’adagio musicale di Gustav Mahler, chissà perché scelto dalla coreografa, non resta che una colonna sonora di sfondo, capace solo di trainare un anonimo movimento corale, la cui esperienza d’ascolto appare di uno scolastico imperdonabile. Anche lo spazio disegnato circolare risulta alla fine bloccato e neutralizzato dall’ossessiva frontalità ballettocentrica.
Fra i solisti, Virna Toppi è magnetica nell’accordare il disegno motorio e il livello affettivo del suo movimento, sorprendente nel partnering non proprio bilanciatissimo con Antonino Sutera, il quale se fatica a stare in ensemble risulta invece perfetto nel suo assolo, tutto giocato in prospettiva e ricco di passi proprio calibrati e disegnati per lui. Lungo una diagonale parte poi un bellissimo ma assai breve assolo per Christian Fagetti, anche spezzato e incurvato, come a voler incontrare nuove simmetrie in tanta duttilità corporale. Questa era forse la strada giusta: lavorare sui corpi (e non sulle impressioni) di ognuno per mostrare nuove materialità nella natura del corpo fisico di questi straordinari interpreti di Scala. Coreografare su musiche di Gustav Mahler è però impresa impervia: anche Alain Platel scivolò con Nicht Schlafen (2016), per una mancanza di consonanza interiore, inaggirabile; un’impresa, invece, riuscitissima a Lea Moro, coreografa svizzera in grande ascesa in Germania e che sarebbe bello poter vedere in qualche festival in Italia, nel suo (b)reaching stillness (2015) in cui ha intuito e restituito perfettamente la dinamica di collasso e resurrezione del compositore austriaco.
JIŘÍ KYLIÁN
Cosa sarebbe stato questo nostro mondo senza Jiří Kylián? Non è una domanda stupida: sarebbe mancata una modalità di intendere la coreografia come un veicolo di emancipazione. Per niente imprigionato fra le maglie di un continente tutto interiore, come esigono molti dei suoi esegeti, Kylián è un coreografo soprattutto della pelle. Della profondità della pelle, come avrebbe detto Paul Valéry. Anche della dimensione del sacro della pelle, se pensiamo a lavori come Symphony of Psalm (1978) su musiche di Stravinskij. Dopo dieci anni alla Scala torna Petite Morte (1991) su musiche di Mozart: qui sei coppie indagano a più riprese il tempo sospeso dell’eros nella polarità biologica di vita e morte.
BÉJART E BOLLE
Ma il lavoro senz’altro più atteso è il terzo. Come possiamo interpretare oggi il lontano Boléro di Maurice Béjart (1961) su musica di Maurice Ravel? Come una coreografia apertamente queer, perché si svolge in una temporalità stramba e in uno spazio ristretto ma apparentemente senza confini: il closet da cui prima o poi uscire. È composta per corpi puramente eroticizzati e narcisisticamente autoreferenziati, su melodia femminile e ritmo tutto maschile. Corpi queer per niente in attesa di futuro, ma solo intenti a sedurre e a godere dell’ora. Fino all’indeterminato del bellissimo finale, con quell’aggressione di gruppo sul singolo che si compie tra desiderio e violenza. Un movimento continuo, quello creato da Béjart, senza sviluppo e dunque senza futuro, perché il godimento in corso è già trasformazione, come perfettamente illustrato dall’infinita linea musicale di Ravel. Spesso (purtroppo) questo balletto è recepito come un pezzo cult e pop, da fine serata, tipo Revelation o Lamentation o The Dying Swan, neutralizzato dunque come una merce per spettacoli di gala. È invece una coreografia straordinaria, fra le più intelligenti e profonde del Novecento nel rapporto con la musica e nella sua esibizione erotica. Roberto Bolle ne dà oggi un’intensa, poderosa interpretazione muscolare, personalissima e anche aggiornata, in cui la sensualità è senza desiderio e l’eros senza alcuna libidine. Non più soggetto ma mero oggetto, ed è immenso in tanta consonanza: non più icona spot per banalissime serate danzanti destinate a telespettatori narcotizzati da astratti e irreali ideali di bellezza, sempre compensativi e mai liberatori, ma finalmente autodeterminato in tutta la sua ambigua e così sfrontata, esposta dunque fragile bellezza. Bolle in between tra un ostentato machismo che sembra già principio di bigorexia, e una bellezza non più adolescenziale né passé e non ancora retro, è felicemente precipitato nella libertà del negativo, emancipato dal giudizio, in un corpo che è come una tomba del normato e di ciò che è socialmente atteso, insomma nell’anarchia del sessuale non riproduttivo. Che è proprio ciò di cui parla la coreografia.
Per dovere di cronaca, restano da riferire i tantissimi minuti di applausi e di chiamate finali; così come per il precedente titolo di John Neumeier e poi per quello successivo di Heinz Spoerli, questa stagione della Scala sta ottenendo un grande consenso di pubblico. Tuttavia occorre ricordare che gli applausi creano sempre la notizia del successo di un balletto ma un balletto di successo non è mai la notizia dei suoi applausi.
‒ Stefano Tomassini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati