Teatro Valdoca. Il canto di animali erotici e politici
Si intitola “Giuramenti” l’opera del Teatro Valdoca andata in scena al Teatro Vascello di Roma. Una potente testimonianza della poetica di una compagnia trentennale.
Sono arrivati al Teatro Vascello di Roma i Giuramenti del Teatro Valdoca. In occasione del debutto avevamo intervistato Mariangela Gualtieri, che con Cesare Ronconi rappresenta il cuore della compagnia. Il loro teatro, incentrato sulla funzione creatrice della parola poetica, unito alla considerazione dello spazio scenico quale ambiente installativo, potente come vent’anni fa, riscaldano questo gelido inizio di primavera.
DIVENIRE ANIMALE
L’ultima creazione della compagnia, Giuramenti, è ideata al Teatro Dimora di Mondaino, una residenza artistica in mezzo ai boschi. Il luogo entra nel processo creativo e lo avvolge, donando allo spettatore il risultato di oltre un anno di prove. I dodici attori costituiscono un coro, un’unica voce composta da molte. Nel training precedente allo spettacolo hanno formato un gruppo, consolidando una sintonia umana e artistica al fine di restituire la compattezza salda e vibrante del canto, elemento centrale dell’evento scenico.
Sospeso tra il divenire-animale (creando dei concatenamenti tra l’animalità e l’essere-uomo) e il farsi figura, il corpo scenico si dona allo spettatore con candore di animale sacrificale, risalta in contrasto con il crudele rosso acceso del fondale di scena, si copre con abiti neri, si fa medium principale, attraverso la sua stessa presenza, di questo canto di rabbia e d’amore che è l’intera opera. Gli attori dal volto imbellettato come tristi marionette urlano, intonano melodie, si attirano e si respingono l’un l’altro. Sono belve selvagge con voci angeliche, talvolta dagli occhi colmi di odio, quello derivante dall’ingiusto subire e dall’imploso e violento sentire. L’inizio è rituale: accompagnano un carro da morto con un cadavere che si risveglia per mano di un attore dai riccioli biondi, dando inizio a riti corrosi di una non velata rabbia che accompagna l’esortazione a un risveglio dello spettatore. Nell’assolo interpretato da Ondina Quadri si invita infatti a “frantumare le ossa”, a “incidere la vita con un segno”: lo sguardo pronto a stanare ogni persona di fronte a sé, come un animale da caccia. La totale assenza di mediazione è presente in maggior dosi nella seconda parte, dove nei versi recitati si chiamano in causa lo sterminio nazista, la brutalità dello stupro e i disagi dell’immigrazione, in particolare lo sfruttamento degli immigrati e i loro umili lavori.
La recitazione è frammentata, quasi meccanica, da sospiro interrotto, e si alterna a canti in dialetto, in tedesco e gospel. In bilico tra il dato emozionale e il rigore della partitura scenica, i corpi si distribuiscono in cerchio, in linea, eseguono danze in tondo, con grazia, in una trance indotta dalla disposizione geometrica ed essenziale delle posture e dalla ripetizione del gesto, come i movimenti abituali di un branco o un gruppo di infans.
ODE AL “NO”
Intono alla metà di questo atto unico, un ragazzo declama, urlando, una sorta di inno al No, parola prediletta proveniente “dalle bocche dei santi e dei sapienti”, invocata quasi fosse, questa sillaba, una divinità pagana. Come nell’ossimoro grotowskiano del benedire bestemmiando, la rabbia che esplode esclude qualsiasi altra soluzione, si va incontro al rischio, in un percorso iniziatico. Se le iniziali certezze si sfaldano, è proprio nella solitudine individuale, nella lotta con se stessi in primo luogo, che affiora una speranza. “Questo no recide strappa mi lascia solo sull’altra riva”, ma allora come fare? come rimediare alla deriva pur avendo in mente una distruzione?
La risposta probabilmente viene data nel segmento scenico dove due attrici, erette su un carro con piedi di bovino, intonano un dialogo con il coro, dove, parlando al singolare, domandano cosa fare nella totale solitudine e smarrimento della loro esistenza. “Domanda all’albero”, risponde il coro, che enumera altri riferimenti, quali il mare e la foresta, e dona come definitiva e inappellabile soluzione il ritrovamento del proprio silenzio. Dall’assenza di voci e di suoni, può dunque rigenerarsi, secondo il messaggio della Gualtieri, una nuova narrazione, una più vitale lingua che incida sul tessuto del reale, dopo la pars destruens costituita dalla ribellione e dalla solitudine che ne deriva.
VEDERE NEL BUIO
In The Forest, Robert Smith canta: “The sound is deep, In the dark, I hear her voice, And start to run, Into the trees”. Nel brano della band inglese The Cure si narra del perdersi e del fuggire tra gli alberi, alla ricerca dell’immagine di un ricordo. Nel percorso scenico/iniziatico di Giuramenti, i dodici ragazzi, anziché scappare dalla foresta, dovranno imparare a orientarsi, a vedere del buio, proprio come le intelligenti e abili bestie notturne. In una sequenza fortemente allusiva, una performer con una luce al neon dona infatti la vista ad alcuni dei suoi compagni stesi sul proscenio, cospargendoli di luce. La parola lucidità, che proprio da luce deriva, è quanto di più adatto per descrivere il tono del coro finale, dove pressante è la ricerca di un confronto con la realtà storica attuale, permeata da paura e violenza. Il finale è lasciato sospeso e aperto, alla grazia del canto si contrappone la durezza del grido e dell’esortazione, quasi militare, un appello non a fuggire in un altrove immaginario, ma a restare ben saldi nel qui e ora, abbattendo le barriere fra teatro e vita.
L’opera di Mariangela Gualtieri funziona come testo sacro, manuale di sopravvivenza e insieme canto di Eros diffuso dal primo all’ultimo istante della rappresentazione scenica.
‒ Angela Bozzaotra
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