L’inferno è già qui. La danza di Hofesh Shechter a Milano e Reggio Emilia
Un duplice appuntamento in Italia con la creatività del coreografo israeliano Hofesh Shechter: “Orfée et Euridice” alla Scala di Milano e “Show” in prima assoluta al Teatro Ariosto per I Teatri di Reggio Emilia. Due produzioni opposte e affascinanti, ugualmente atti di resistenza contro le fondamenta naturalistiche dell’umanità.
Potrebbe sembrare paradossale affermarlo, ma la danza, sempre così ritmata e intensa, veloce e nervosa, di protesta e di speranza di Hofesh Shechter altro non è che un invito a danzare piano. Lo scrive indirettamente la filosofa australiana Michelle Boulous Walker nel suo Slow Philosophy. Reading against the Institution: non c’è lettura (o danza) né lettore (o danzatore) innocente. Come la si fa e come vi si risponde non è mai casuale. Allora ogni rallentamento, ogni immobilità che contrasta il movimento incessante e produttivo delle pratiche istituzionali, altro non è che un debito, un prestar fede alla temporalità calma e senza ritmo del pensiero e della speranza: un atto di resistenza.
ORFÉE ET EURIDICE
Per la prima volta cantato in francese, approda alla Scala l’Orfée et Euridice di Christoph Willibad Gluck (1774): ne valeva la pena, è un allestimento del Covent Garden che innova profondamente il rapporto fra testo musicale e coreografico, nonché quello tra acustica e platea. Tutto è in movimento, anche il suono, e dolersene per mere ragioni di ascolto non rende giustizia a tanta benefica sonorità. L’orchestra si trova al centro del palcoscenico, su un perimetro circoscritto e mobile capace di sprofondare o di innalzare il proprio piano esecutivo (e di modificare, dunque, il volume sonoro). Si creano così nuovi livelli e nuove prospettive, nuove gallerie e improvvise aperture dell’orizzonte che restituiscono al viaggio di Orfeo un intero nuovo paesaggio, con tutt’altre prospettive. In alto, un cielo di legno inclinato i cui fori sono attraversati da traiettorie di luce e le cui sezioni mobili sono riallineabili secondo esigenze di drammaturgia anche del suono, racconta tutta la mobilità delle gerarchie con cui costruiamo la nostra percezione del mondo.
Questa edizione francese ha come voce protagonista il tenore, qui l’ottimo Juan Diego Flórez, complice e perfettamente organico alle scelte registiche di Hofesh Shechter e John Fulljames. Fatma Said (già Pamina alla Scala) è Amore in rigoroso abito d’oro, non priva di appeal in quell’ambiguità richiesta al carattere, mentre Christiane Karg è un’Euridice molto accorata e forse troppo perplessa. Michele Mariotti sul podio è ineccepibile, per niente a disagio per la difficoltà di avere i cantanti alle spalle, che lo hanno seguito sui monitor posti nella buca svuotata dell’orchestra. All’inizio una cremazione simbolica dice tutta l’urgenza di ritornare agli elementi della materia: non si tratterà di descrivere un ritorno dalla morte ma di un viaggio nei fondamenti del corpo e della sua distruzione. L’amore più vero è quello che elabora l’abbandono non attraverso la fedeltà di un sentimento ma piuttosto mediante la resistenza alla finitudine. Per questo il segno tribale e primitivo di Shechter prende qui il sopravvento. Così come la scena finale, una pira che smentisce l’happy end del libretto, riconduce tutto e tutti a una riflessione individuale: l’amore ritorna solo se l’idea della morte è superata. È infatti la danza che emerge, tracima, inonda e invade la scena anche ben oltre quanto previsto dalla partitura, in tutta la sua materializzazione del mondo. L’inferno è già qui, e solo la danza è capace di resistervi, sovrapponendo alla metafisica della finitudine l’atto di resistenza di un nuovo materialismo capace di rivelare nuova vita oltre la morte.
SHOW
“It’s just like a number”, così Hofesh Shechter in una recente intervista sul suo ultimo incredibile lavoro: Show. La risposta è compiaciuta ma l’idea è mirabile. Costruito appunto come un singolo numero da circo di ben 50 minuti, tra entrata (The entrance), esibizione (Clowns, che ha debuttato autonomo nel 2016 come commissione per il Nederland Dans Theater) e uscita sugli applausi (Bows), Show ha debuttato in prima assoluta al Teatro Ariosto di Reggio Emilia per la stagione di danza de I Teatri. Interpretato da otto incredibili danzatori della compagnia giovanile Shechter II, il clima è decisamente quello di un macabro noir barbarico. Anche se intorno la luce che domina è spesso rossa, come il sipario sul fondale.
Gli omicidi, gli ammazzamenti, i contrasti, i litigi e le momentanee ricomposizioni si susseguono quasi senza sosta, come gag e sketch di continue trovate teatrali. La linea musicale che sostiene la performance, composta dallo stesso coreografo, è altrettanto carica ed elusiva di un clima quasi sempre da resa dei conti. Come se soltanto in una marcia perenne, in un montaggio dettato dai cluster, si potesse ritrovare un’ipotesi di ordine o un po’ di compattezza. Eccola la parodia dello stato d’eccezione in cui un vuoto giuridico, la sospensione di ogni diritto è paradossalmente legalizzata per la paura, alimentata ad arte, dell’inferno. Tutto inutile. Di nuovo, l’inferno è già qui, e siamo noi. L’abitudine ai carnefici, agli sgozzamenti e ai colpi a tradimento aiuta il silenzio e l’inganno sul loro operato, e allora nessuno può credersi innocente. È la pagliacciata della società dello spettacolo che mette in scena la morte come un atto grandioso o come una scena insignificante, per opacizzare, giustificandola, la violenta normalità dei suoi mezzi di produzione e profitto.
In Shechter il gruppo è sempre una tribù, che è un tipo di aggregazione di ordine semplice e non politica, la cui mobilità è ormai diventata, anche in termini stilistici (e non c’è proprio nulla di male in questo), un segno proverbiale e distintivo del coreografo. Ma è nell’immobilità e nelle resistenze al movimento di talune sequenze, spesso in momenti di grande intensità ritmica, dunque visivamente a contrasto, che noi possiamo cogliere in questa tribù gli estremi di un mutamento. Questo rallentamento, questa immobilità, questa opposizione non è mai un blocco da resa, un’inutile attesa o una perdita del tempo. Ma è una azione di resistenza: al ritmo, all’energia, forse proprio al male che si annuncia senza ancóra mostrarsi. Il singolo, invece, è spesso rappresentato da Shechter in tutta la sua vulnerabilità: nervoso, spaventato o inerme, in lotta con la luce e sotto scacco dell’ombra che monta, come se non vi fosse alcuno spazio al di là del cinismo di chi sa sempre approfittare, o di chi sa sempre cadere in piedi, di chi deve vincere a ogni costo e trarre profitto da ogni cosa, di chi vuole occupare il potere per scippare il presente non meno del futuro. Nelle parti solistiche il monologo danzato nei lavori di Shechter non è esibizione ma negoziazione con le nevrosi e le tenebre di ognuno; è la ricerca di una epifania dell’individuo attraverso un’intera antropologia del perdente. Théophile Gautier contrapponeva proprio i saltimbanchi ai ballerini dell’Opéra, perché meglio capaci di trasformare ogni fragilità in una prodezza. Del resto, così scriveva il primo dei clown moderni, Joe Grimaldi: “Per la morte sappi avere, alla fine, una burla bizzarra”.
‒ Stefano Tomassini
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