Danza. La morte e la fanciulla di Abbondanza Bertoni
Dopo la nomination ai Premi Ubu come miglior spettacolo di Danza 2017, “La morte e la fanciulla”, ultima produzione della Compagnia Abbondanza Bertoni, vince (ex-aequo) il premio Danza&Danza 2017 come Produzione italiana dell’anno. L'abbiamo vista a Rovereto.
È raro che l’eleganza nella danza contemporanea sia una rasoiata di silenzio che sfuma nel movimento. Un “levare” tra un colpo di corpo che si abbatte sull’orizzontale del pavimento e una verticale che saltella ad afferrare il respiro. È la legge degli spazi bianchi che si declina come una carezza, seduzione, vitalità prima che i corpi cedano al cupio dissolvi. Non c’è eros in quei corpi che si staccano da un fregio del Baschenis per dirci l’ultima parola prima di svaporare nella nebbia.
La morte e la fanciulla è passata anche al Teatro Zandonai di Rovereto e, dopo aver sfiorato l’Ubu di quest’anno, ha vinto il Premio Danza&Danza 2017 come “Produzione italiana dell’anno”.
È innanzitutto un lavoro sull’ibrido, sul dialogo tra reale e virtuale, contemporaneo e classico. Un gioco di forze il cui scontro è bellezza amara e luttuosa.
Tentata dal contemporaneo è la coreografia di Abbondanza Bertoni, in equilibrio sull’immaterialità sono i corpi delle straordinarie Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Claudia Rossi Valli. Un po’ come alla Biennale veneziana di una decina anni fa, quando, con Ocean Without a Shore, Bill Viola ci aveva sospesi sul significato di imago, fantasma, volatilità dell’immagine a rischio di perdersi nella memoria. Imago come ologramma di ciò che non è più, di un’assenza che qui è detta con il medesimo strumento video che replica alle spalle delle tre danzatrici la loro esistenza mediata. Materiale per Rosalind Krauss, cosa ne è del corpo dopo la smaterializzazione del “medium”? Abbiamo ucciso il chiaro di luna ma cosa ne facciamo di questi corpi che si dibattono nel romanticismo?
CLASSICITÀ E NARRAZIONE
Ma il discorso di Abbondanza Bertoni rimane fortemente ancorato alla classicità e soprattutto alla narrazione, cosa rara. Sul palco i tempi sono scanditi dalla ardente musica di Schubert (chissà con i musicisti dal vivo cosa sarebbe stata!) e la danza (macabra) è strutturata dentro i tempi dello spartito proiettati sul fondale: Allegro, Andante, Scherzo allegro molto, Presto. Non c’è tuttavia mimesis e realismo; anche nel primo Lied (scritto dallo stesso Schubert), dove le tre danzatrici sembrano più accompagnare il canto umano e commovente del testo. Non era questa l’intenzione coreografica, quanto forse stagliare in una lama di luce figure di un Ade che anela al ritorno alla vita. Il dietro le quinte da cui provengono i video è un aldilà anche meta-teatrale, non-luoghi in cui indossare la nudità per affrontare il vuoto, il gelo di un palco candido di fumo.
Proserpina ed Euridice, a braccetto con ninfe e grazie canoviane, percorrono con infinita morbidezza il confine che separa l’incubo (alla Füssli) dal sogno (alla Böcklin). Tese, inarcate, sconnesse e animalesche, nude alla meta sono streghe shakespeariane o baccanti dai capelli rigorosamente lunghi e sciolti come quelli di Antonella Bertoni. Ci ricordano come un epitaffio neoclassico che quando “verrà la morte avrà i tuoi occhi”. Il corpo nudo è lì a flettersi nella grazia della Danse ma dolorosamente (e che dolore) presto non sarà più, già ossuto come La Vanità di Memling è pronto a risorgere dal sepolcro imbiancato, con dolcezza.
‒ Simone Azzoni
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