Voci senza parole. La danza di Cindy Van Acker
La coreografa Cindy Van Acker ha presentato, al LAC di Lugano, “Speechless Voices”, una riflessione sulla perdita con un’accurata, analitica elaborazione della paura. Così i corpi, il suono, il silenzio, la luce e il movimento diventano “voci senza parole” perché non vi è alcuna informazione da consegnare, ma solo emozioni da dispiegare.
Il cordoglio per una perdita porta sempre con sé l’esperienza della paura. La danzatrice e coreografa Cindy Van Acker, belga ma residente in Svizzera da oltre venticinque anni, ha presentato per il Festival Steps, al LAC di Lugano, la sua nuova pièce dal titolo Speechless Voices. Si tratta soprattutto di un omaggio all’amico e compositore finlandese Mika Vainio (cofondatore del gruppo di musica elettronica Pan Sonic e da lungo tempo collaboratore della coreografa) con il quale avrebbe dovuto realizzare questo lavoro prima della sua prematura scomparsa.
Ma è anche ispirato alle opere del pittore belga Michaël Borremans (classe 1963) il cui personale mondo visivo è composto di nature morte e di primi piani di figure umane dimesse e trasfigurate, spesso di spalle, dipinte in tinte cupe.
Mai come in questo nuovo lavoro, Van Acker costruisce, nella durata, vere e proprie anatomie di immagini in movimento. Da quelle processionali del lutto a quelle in marcia della lotta, a quelle infine solenni e cerimoniali. È come se l’assente fosse qui rievocato non attraverso le trame del tempo, ossia nella dilatazione dell’esecuzione del gesto affinché sia possibile fare spazio all’ospite, ma proprio nelle figure che prendono vita attraverso questa lingua comune creata dal movimento delle immagini. Il gruppo in scena allora è una comunità con una lingua condivisa in grado di resistere alle potenze del buio: il buco da cui tutto svanisce senza far rumore. E non è difficile dedurre che questo sia anche un lavoro che riflette sul congedo come una accurata, analitica elaborazione della paura.
INTERPRETI E SCENE
È affidato a sei interpreti (Stéphanie Bayle, Matthieu Chayrigues, Laure Lescoffy, Raphaële Teicher, Rudi van der Merwe, Daniela Zaghini), di grande potenza visiva, mentre il movimento è strettamente connesso con il dettato musicale (soprattutto Vainio e Bach per il finale) in una simbiosi quasi ossessiva capace di sovrapporre e unire i piani espressivi, facendoli coincidere. I corpi, il suono, il silenzio, la luce e il movimento sono tutti davvero voci senza parole perché non vi è alcuna informazione da consegnare.
Dal buio un vecchio vinile viene fatto suonare e allora si illumina una scena tutta bianca, sovrastata da un importante lampadario a gocce di vetro molato, scena certamente carica di lutto, interrotta da violenti azzeramenti di nero. Le presenze qui, altrettanto vestite di bianco, sembrano disporsi e modularsi come in una trance. Ma poi i teli bianchi cadono dalle tre pareti e la scena resta avvolta da un caldo colore ramato, che passa poi nella ruggine fino al nero più fondo del finale. Intanto, da uno spazio di penitenza si giunge forse a uno spazio di riscossa e di lotta: qui le azioni si frammentano tra figure che con generosità danno vita a un movimento perfettamente allineato col volume ritmico e sonoro di Vainio, mentre altre figure sostano, come nelle tele di Borremans, di spalle. È una attesa senza compimento, un restare nel tempo fermo come emancipazione dalla mobilità a ogni costo, il tempo forzato delle nostre vite affannate. In questi corpi bloccati non vi è transizione perché si trovano al di fuori della logica del cambiamento e del consumo. Nessun mito solare verrà a confortare queste anime che prendono spazio in un inno alla vita che è insieme apocalittico e dissidente. Da qui le parole di A hole in my body (della coreografa), ma soprattutto la voce di Pier Paolo Pasolini che scandisce il suo Canto popolare. E allora l’annunciato “poema coreografico” incontra la parola vicaria e si compie perfettamente: “e vive puro, non oltre la memoria | della generazione in cui presenza | della vita è la sua vita perentoria”.
DRAMMATURGIA DELLA NEGAZIONE
Una riflessione sulla vita, dunque, e sulle sue paure che si consumano a fianco come “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata”, proprio come ricordava lo stesso Pasolini (Medea). È attraverso questa drammaturgia della negazione, della protesta e resistenza, dei margini prossimi al niente, che può aprirsi, per Cindy Van Acker, un nuovo spazio all’immaginazione dello spettatore. Perché nessuna separazione, nessuna sparizione nell’ombra può mettere a tacere la verità di una passione, la forza di un immaginario che è stato per sempre vivente.
‒ Stefano Tomassini
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