Limiti e palcoscenico. Intervista ai Nature theater of Oklahoma
Parola a Pavol Liska e Kelly Copper, direttori artistici della compagnia newyorkese Nature theater of Oklahoma, incontrati in occasione della loro ultima creazione, “Persuit of Happiness”, ospitata nella rassegna Fog alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano.
Nature theatre of Oklahoma è una compagnia off–off Broadway diretta da Pavol Liska e Kelly Copper. Il loro nome viene dal romanzo Amerika di F. Kafka in cui il suddetto teatro apre le porte a chiunque voglia proporsi. Negli ultimi dieci anni hanno girato il mondo con spettacoli originali e radicalissimi come No Dice, maratona di quattro ore in cui il testo recitato dagli attori era ricavato dalle registrazioni di loro reciproche telefonate. Oppure Life and Times, un’opera epica basata sul racconto della propria vita di una delle attrici del gruppo, Kristin Worral, e strutturato in ben otto episodi performativi diversi tra loro per forma e genere. Lo scorso 8 e 9 maggio sono stati alla Triennale di Milano in occasione della rassegna Fog con il loro ultimo lavoro, Persuit of Happiness, creato in collaborazione con il collettivo sloveno EnKnap Group: un western sulla ricerca della felicità in cui un barista messicano, un gruppo di cowboy e un viaggio a Baghdad diventano gli elementi di una drammaturgia assurda e sorprendente che si presta a diversi piani di lettura. Prima dello spettacolo abbiamo incontrato i due registi Pavol Liska e Kelly Copper per discutere del loro lavoro, dei loro inizi e dei loro processi creativi.
Dopo un primo periodo di attività avevate deciso di smettere. Poi avete ricominciato con una personale versione del Gabbiano di Čechov. Che tipo di lavoro avete fatto?
Kelly Copper: Erano cinque anni che non facevamo più teatro. Facevamo molte fotografie, guardavamo film sperimentali degli Anni Sessanta: Jack Smith, Andy Warhol. Film di altissima qualità fatti con poco denaro. Costumi presi dalla spazzatura, il trucco degli attori spesso fatto male, la pellicola a volte rubata. Così abbiamo pensato che sarebbe stato fantastico fare la stessa cosa in teatro. Lavorare con ciò che trovavamo.
Pavol Liska: Abbiamo scelto Il Gabbiano perché parla di teatro, del perché lo si fa, della necessità di nuove forme. Era un’occasione per parlare di noi stessi, delle nostre ansie, delle nostre speranze. Facevamo le prove nel nostro appartamento e avevamo un vicino al piano di sotto che si lamentava per i passi, così decidemmo che tutto sarebbe accaduto su una panchina. Non potevamo muoverci se non per fare brevissimi tragitti. Il gabbiano era un pollo di gomma. Lavoriamo così: prendiamo le condizioni disponibili e le trasformiamo in elementi per il lavoro.
Perché avevate deciso di smettere?
P. L.: Io mi chiedo come mai qualcuno cominci a fare teatro. È una forma d’arte poco considerata, forse anche sottosviluppata, che continua a rincorrere tutte le altre arti. Noi proviamo a essere il più radicali possibile. Non c’è mai una reale discussione che va avanti. Viviamo a New York, ma il nostro pubblico è principalmente in Austria e in Germania. Anche a casa nostra siamo stranieri.
K. C.: È difficile perché non puoi lasciare nulla al tuo pubblico. Joyce ha scritto Finnegans wake e la gente può ancora studiarlo. Il tuo lavoro può essere esteticamente avanzatissimo, ma non puoi avere certezze su quanto il pubblico coglierà della tua ricerca nel tempo di una performance.
P. L.: Allo stesso tempo è una forma d’arte molto materialistica. Puoi essere completamente poetico e creativo perché hai continuamente a che fare con questioni pratiche e i limiti connessi a esse possono generare risultati interessanti. Sono essi stessi una poetica. Il limite è anche nel pubblico. In ogni istante devi chiederti dov’è il tuo pubblico.
K. C.: Questa è la ragione per cui seguiamo sempre la compagnia in tour. Guardiamo ogni performance e il giorno dopo ne discutiamo con gli attori per tenere vivo il processo. Abbiamo le ambizioni più alte per il nostro lavoro, vogliamo davvero provare a generare nuove forme di comunicazione.
Come tutto questo influenza il processo creativo?
P. L.: Ci mettiamo nelle condizioni di fare cose che non sappiamo fare. Partiamo da un materiale da mettere alla prova, poi cerchiamo una strada. Non cerchiamo di fare prodotti compiuti, né tantomeno di qualità. Si tratta di esperienze e quell’esperienza può contemplare anche una bassa qualità.
In No Dice davate note di regia agli attori in tempo reale durante la performance.
K. C.: Sì, li dirigevamo stando dietro al pubblico attraverso un codice di gesti delle mani come se fossimo coach di baseball. E loro avevano delle cuffie attraverso le quali ascoltavano il testo da recitare. Per noi era importante che non lo memorizzassero.
P. L.: Questo teneva gli attori in un continuo stato di presenza e li aiutava a non perdersi in alcuna forma di finzione. Non lavoriamo mai davvero con la finzione: usiamo costumi e situazioni, ma cerchiamo sempre delle strategie per radicare la performance nel presente.
Quale è stato il punto di partenza per questo ultimo spettacolo, Persuit of Happiness?
P. L.: Siamo partiti da un testo scritto da noi nell’arco di due anni. In origine siamo drammaturghi. Avremmo lavorato con dei danzatori così abbiamo pensato che fosse una buona occasione per tornare a scrivere e farli recitare.
K. C.: Un altro elemento è stato un libro di danze cowboy degli Anni ‘30 che abbiamo portato con noi la prima volta che siamo andati in Slovenia per incontrare EnKnap Group. C’erano descrizioni e immagini, così abbiamo cercato di ricostruire quelle danze con loro. Era un modo per conoscersi. Non pensavamo di fare un lavoro ispirato all’immaginario cowboy. Nella sala prove c’era una sbarra per la danza classica e abbiamo iniziato a usarla come se fosse un bancone. Via via i vari elementi hanno iniziato ad avere una loro coerenza.
Qual è il vostro prossimo progetto?
P. L.: Tra due settimane saremo a Düsseldorf per le prove di un nuovo spettacolo: un balletto. Non è la prima volta che lavoriamo con la danza. In Poetics, a ballet brut avevamo costruito la coreografia con dei dadi. Avevamo associato a ogni numero un gesto e lanciandoli avevamo costruito lo spettacolo. Questa volta però sarà diverso.
K. C.: Volevamo fare finalmente qualcosa a New York, poi è arrivato un coproduttore tedesco e siamo finiti di nuovo in Germania, ma siamo molto contenti di tornarci.
‒ Francesco Michele Laterza
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