La Bohème di Àlex Ollé chiude la stagione dell’Opera di Roma
Prima della programmazione estiva alle Terme di Caracalla, l’Opera di Roma allestisce ‒ in collaborazione con il Teatro Regio di Torino ‒ l’iconica opera di Puccini. Nelle maglie metalliche della città, la storia d’amore di Mimì e Rodolfo è riletta in chiave contemporanea.
La Bohème ‒ opera in quattro quadri, tra le più celebri e rappresentate di Puccini ‒ è una messa in scena nostalgica: l’apologia di un mondo che non esiste più e, soprattutto, un addio ai sogni della giovinezza. Lo scontro con la realtà è la morte di Mimì: l’ovvia conclusione dei big drama ottocenteschi, in cui l’eroina è la vittima necessaria all’impalcatura della storia. “Tra l’allegra vitalità della presentazione dei personaggi e la coscienza dell’arrivo inevitabile dell’età matura c’è solo l’istante tragico in cui Mimì muore”, scrive Àlex Ollé nelle sue note di regia, “con Mimì svanisce l’illusione di un mondo fatto di sogni e di futuro. Mimì impone il presente”.
UN FINALE FULMINANTE
Bisogna, allora, partire dalla fine, per comprendere la rilettura ‒ che attualizza, ma non dissacra il dramma pucciniano ‒ fatta dal regista catalano, sesto direttore artistico de La Fura dels Baus: il momento in cui la protagonista spira è l’unico in cui la scena si illumina completamente, in cui le impalcature metalliche che costruiscono lo scheletro dei palazzi di una periferia parigina si rivelano in tutta la loro gelida immanenza. Il finale è fulmineo, una visione livida, accorata e senza risposte: uno squarcio aperto su un futuro incerto, quello del passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Per Ollé la messa in scena de La Bohème è una sorta di cammino a ritroso, una memoria malinconica, che s’infrange ‒ senza catarsi ‒ laddove avviene la presa di coscienza dolorosa della realtà.
L’ambientazione è quella di una banlieue (ma potrebbe essere una periferia di qualsiasi metropoli), tratteggiata dalle maglie d’acciaio di travi e piloni, dalla selva di condizionatori appesi (questo, sì, un vero dettaglio del nostro tempo), dalle insegne, da un colorato e variegato squallore, delicatamente trasfigurata dalle luci e dalla neve: curiosamente ‒ e qui sta l’elemento più riuscito della regia di Ollè ‒ la contemporaneità non si impone, ma piuttosto si sovrappone, plausibile, alle celebri arie ottocentesche.
NEL CUORE DELLA BANLIEUE
Così non stupisce che al Momus, locale degli artisti, ci siano intellettuali radical chic e starlette in cerca di successo come Musetta (uno dei personaggi più riusciti della rappresentazione); non sono caricaturali né la cameriera trans né lo spacciatore o la presenza della polizia ‒ un deciso accenno di critica sociale ‒ che interviene per sgomberare i venditori ambulanti o per perquisire un palazzone occupato.
Queste micro scene s’affiancano alla storia originale, rispettata nella sua scansione in quattro sequenze: la fatica di sbarcare il lunario, le schermaglie amorose tra le due coppie s’innestano e scivolano sul dramma, che si compie inesorabile. La Mimì di Ollé muore di cancro, invece che di tisi (ma cambia poco nell’economia dei fatti), spezzando l’incanto di una gioventù che non è mai stata dorata, ma che è stata ugualmente carica di aspirazioni e illusioni.
‒ Maria Cristina Bastante
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