Un anticipo di Torinodanza. Crystal Pite e le risposte al trauma
L’anteprima del festival autunnale Torinodanza porta in Italia l’imperdibile “Betroffenheit” della coreografa canadese Crystal Pite per la compagnia Kidd Pivot e l’Electric Company Theater. In scena è il trauma privato e la tragedia personale: il dolore impensabile a cui solo il movimento può trovare risposte.
L’anteprima di Torinodanza, festival da quest’anno diretto da Anna Cremonini, non poteva essere più necessaria. Altrimenti rischiavamo di perderlo, questo intenso e importante lavoro, coreografato e diretto da Crystal Pite e creato insieme all’attore e drammaturgo Jonathon Young. Un vero tour de force per gli interpreti, sempre all’altezza, ma anche per tutti i tecnici e macchinisti che ne consentono il funzionamento: il titolo, Betroffenheit, si traduce come “sgomento, costernazione” ma sta soprattutto a indicare uno stato affettivo post-traumatico. Sullo sfondo l’antefatto di un incidente mortale in cui hanno perso la vita dei bambini (ispirato alla personale tragedia dello scrittore che ha perso una figlia e i suoi due cugini in un incendio). A chi sopravvive, le parole non sembrano mai abbastanza. La salvezza è un inutile peso, un groviglio combattuto di pensieri contraddittori. Ed è facile ritrovare nei corpi e nei gesti dei performer tutto l’orrore che le parole non possono descrivere, quei significati che la voce può soltanto inseguire.
È forse un lavoro di svolta per Pite, di maggior compimento in una felice sintesi: se in passato le sue creazioni apparivano come (bi)polarizzate tra un teatro molto fisico e parlato, e una danza fuori baricentro, per niente descrittiva o mimetica, qui invece le due parti, sospese da un intervallo, sembrano molto più connesse e organiche. Anche se lo scenario cambia, qualcosa sembra non più continuamente distrarsi e rinviarsi, ma finalmente raggiungere un adempimento.
SOGLIA E TAGLIO
Nella prima parte va in scena un mondo kafkiano: in termini spaziali si tratta di una soglia (come in Vor dem Gesetz ossia Davanti alla legge, un uomo siede per tutta la vita accanto a una porta in attesa di cogliere la verità): un assai spoglio spazio industriale con una colonna d’acciaio che taglia al centro; attorno cavi elettrici che all’inizio prendono vita prima che nell’angolo una figura rannicchiata appaia. In termini scenici, il dolore di chi è sopravvissuto al trauma, continuamente interrogato, figurato e poi rimosso, si alterna qui a una apoteosi di gag, di transizioni e di ritardi sul parlato che è spesso in playback, ritmato come un’estensione del tempo reale, in una dilatazione che fa della scena un luogo non del doppio temporale della realtà, ma della sua spazialità. È la natura del testuale in danza quella di imprigionare i significati e anche di far ridere: è il linguaggio, infatti, quel taglio doloroso che rende parlanti gli animali che siamo. E solo il corpo può parimenti confrontarsi con questo taglio. Solo la danza può inverare questa materiale utopia, rovesciando la pulsione di morte che abita il linguaggio.
UNA PERFORMANCE SULLA SOPRAVVIVENZA
In un cupo carnevale che prende vita da una porta/soglia si danza al ritmo di samba e cha cha cha con irruzioni di tap e clownerie varie. Tutto sembra succedere affinché la mente, i pensieri, i sensi di colpa di colui che è sopravvissuto siano imprigionati e forse sospesi in una sorta di improvvisato spettacolo hollywoodiano, in una mediocre fiction mediatica, o tra le immagini di una pubblicità ossessiva sul desiderio esotico. Insomma: una specie di festa carioca stile Las Vegas, una Rio nel cortile di casa per tenere a bada i fantasmi, prima di ogni ipotesi risolutiva che dia invece speranza al vuoto di tanta perdita.
Nella seconda parte, invece, il viaggio nel dolore diventa finalmente individuale, l’elaborazione è arrivata al suo culmine, si compie nei corpi di tutti in modo risolutivo e si conclude non a caso con uno straordinario assolo. È dunque una performance sulla sopravvivenza, di grande apertura alla vita anche attraverso lo “stare fermi” e la “accettazione” di tutti i termini in causa, e non tanto per difendere un sistema o tenere in piedi un organismo, ma soprattutto per raggiungere la più vera natura del dolore e comprendere, dopo i tentativi delle parole, ciò che merita di essere salvato: ciò che non è inferno e che avrà spazio nella memoria di coloro che non ci sono più.
‒ Stefano Tomassini
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