Biennale Danza. Francesca Foscarini e Marlene Monteiro Freitas a Venezia

Alla Biennale Danza di Venezia, Francesca Foscarini, una delle due sole presenze italiane in laguna, ha presentato un assolo creato per il danzatore Romain Guion. La capoverdiana Marlene Monteiro Freitas, Leone d’argento 2018, una originale rilettura delle Baccanti di Euripide.

Non si riesce a staccare gli occhi dal suo sguardo magnetico. Che ci scruta e osserva con l’espressione furtiva e indagatrice, sicura e smarrita, marcando quel perimetro di scena col suo corpo nervoso, cedevole e resistente, teso come un arco e saettante come una freccia, violento e fragile allo stesso tempo, nei balzi felini e nelle cadute rovinose all’indietro, con le braccia che vibrano come arti ora aggressive, ora protese in avanti supplicanti, ora in cerca di protezione; e con le mani frementi come zampe che graffiano, stringono, chiedono. È umanissimo e, contemporaneamente, abitato da un’animalità che gli vive dentro, che lo sdoppia e lo fa essere in ascolto di essa e della natura attorno densa di voci, suoni, luci e ombre, echi e richiami. Nel corpo del danzatore Romain Guion pulsa e si condensa un paesaggio che è energia, lotta, paura e sfida, dolore e piacere: un territorio affollato di presenze, un luogo dentro il quale abitare e proteggersi. Indagando il tema dell’alterità, e ispirata al pittore Antonio Ligabue e alle sue straordinarie visioni del mondo naturale, Francesca Foscarini ha creato, con Animale, un piccolo capolavoro coreografico plasmando sul danzatore francese una mappa potente di segni fisici e poetici, capaci di evocare mondi umani e animali – una “natura spaventosamente indifferente”, citando John Berger ‒ in una continua metamorfosi simbiotica nel tentativo di avvicinarsi e conoscere il mondo animale.

Biennale Danza di Venezia 2018. Animale. Coreografia di Francesca Foscarini. Photo © Andrea Avezzù

Biennale Danza di Venezia 2018. Animale. Coreografia di Francesca Foscarini. Photo © Andrea Avezzù

L’UOMO E GLI ANIMALI

Foscarini di sicuro ha attinto dal saggio dello scrittore e pittore inglese Perché guardiamo gli animali? in cui si esamina l’evoluzione del nostro rapporto con essi, di come sono entrati nell’immaginazione dell’uomo quali messaggeri di promesse. La gestualità e la danza che scaturisce dal corpo di Guion sembra mossa dal trovare tratti comuni, come la ferocia, la mitezza, il coraggio, la paura e anche una certa sagacia, per riuscire a comunicare con noi. Guion lo troviamo già in scena aggirarsi con uno specchio in mano intento a proiettare il riflesso anche sul pubblico puntando lo sguardo, cercando qualcosa o qualcuno da incontrare, sul quale rispecchiarsi. Poi, esegue un balzo improvviso all’indietro e una caduta violenta più volte ripetuta. Come se fosse posseduto. Ruota sempre più velocemente la testa, si schiaffeggia ripetutamente, apre le braccia con sciabolate nell’aria, si ferma, spalanca la bocca come le fauci di un leone ruggente. Smorfia che si trasforma presto in pianto. Udiamo una voce ripetere in ebraico un frammento della Genesi biblica, il momento in cui l’uomo assegna il nome agli animali, stabilendo così la posizione di dominio che egli ha su di essi. E i gesti a occhi chiusi dell’uomo sembrano dare atto e forma a quegli esseri viventi. Al cinguettio di uccelli, al frinire di grilli, allo strepitio di ruscelli subentra, quale tessuto sonoro, il suono di una chitarra elettrica, un cambiamento climatico che modifica il fisico dell’interprete nel succedersi di posture di fiere che egli assume stando su una gamba, scalpitando come un cavallo al trotto, piegando le braccia da volatile. Poi, di nuovo, l’improvviso sbattersi a terra, di peso, rialzarsi e riprendere forme e movimenti disarticolati, reiterati. Il corpo a testa in giù, la gamba alzata come un giunco, le mani tese e tremolanti, segno di paura e di aiuto. Sono visioni della mente oltre l’orizzonte, sguardi che rientrano nel profondo, che affondano nel buio dell’anima, di una pazzia latente, del corpo rifiutato e abbandonato. Accovacciandosi a terra e spogliandosi lentamente della maglietta maculata e dei pantaloncini da esploratore ‒ corteccia o seconda pelle ‒, nella semioscurità e nel silenzio totale che lo avvolge, rotto soltanto da un distillato di note solitarie di pianoforte, sul suo petto compare, proiettato, un unicorno bianco che una pioggia leggera, bagnandolo, trasformerà in cavallo, e lasciando infine illuminato di sereno stupore il viso dell’uomo. Una lunga, emozionante sequenza che ipnotizza per bellezza e dà compiutezza a quel corpo arreso in un’atmosfera appagata dalla giusta stanchezza d’uomini e d’animali. Prima coreografia di Foscarini senza lei stessa in scena, che prelude – e ce lo auguriamo ‒ a nuove creazioni su e per altri corpi.

Biennale Danza di Venezia 2018. Bacchae. Prelude to a purge. Coreografia di Marlene Monteiro Freitas. Photo © Andrea Avezzù

Biennale Danza di Venezia 2018. Bacchae. Prelude to a purge. Coreografia di Marlene Monteiro Freitas. Photo © Andrea Avezzù

BACCHAE – PRELUDE TO A PURGE

La sua versione delle Baccanti di Euripide, Bacchae – Prelude to a purge, è un gran baccanale carioca, uno sfrontato slapstick dove è inutile cercare la tragedia del drammaturgo greco. La capoverdiana Marlene Monteiro Freitas (premiata col Leone d’argento 2018) compie un susseguirsi di azioni corali scombinate con punte di frenetici assoli generati dalla musica di cinque trombettisti che spaziano sulla scena, dialogando umoristicamente con le note e i versi gutturali che creano, e determinando il climax caotico che caratterizza lo spettacolo. A loro fanno il verso otto atletici performer inizialmente muniti di tubi di gomma e imbuto che presto si trasformano in strumenti a fiato, in armi, in stetoscopi, in attrezzi ginnici, e altro ancora. Ma sono soprattutto i leggii e le aste di microfoni disseminati sulla lunga scena rialzata e illuminata da uno schermo giallo, a fungere da oggettistica con varie funzioni e forme che creano, nell’immaginario, macchine da scrivere – per una competizione a chi resiste di più e velocemente battendo a macchina ‒, aspirapolveri, fucili, ombrelli, scudi e altri arnesi ancora. Tutto questo mescolando recitazione, mimo, danze caraibiche, krumping, e balli tradizionali, mentre le danze esplodono solo a tratti tra uno sketch e l’altro – incluso un disturbante video in bianco e nero con la sequenza realistica di una donna cinese che partorisce da sola sotto lo sguardo di un’altra donna e di un bambino –, ma senza un filo rosso che unisca i tasselli dell’irrazionale performance “esteticamente scorretta”. Ai continui strombazzamenti subentrano melodie riadattate come il Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy e il Concierto de Aranjuez per culminare nell’abusato Bolero di Ravel sul cui ritmo si scatena una danza compulsiva con i performer seduti che meccanicamente si alzano e si abbassano e si muovono come marionette, tra battiti di tamburo e di nacchere, chiudendo lo spettacolo. Viene chiesto allo spettatore di “guardare diversamente” – indicazione, fra il resto, nelle motivazioni del Leone d’argento – ma si fa fatica ad ammirare l’eccessiva sarabanda, a tratti sì divertente, ma che poteva benissimo non scomodare Euripide, né Penteo e Dioniso, lasciandoci immaginare qualsiasi titolo o storia. Tanto è il caos a regnare.

Giuseppe Distefano

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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