Doloroso Empedocle. Romeo Castellucci in scena a Spoleto
Ispirandosi a “La morte di Empedocle”, tragedia incompiuta di Friedrich Hölderlin, Romeo Castellucci porta sulla scena spoletina un dramma antico e sempre nuovo, quello di colui che non vive nel suo tempo, bensì in una atemporale ricerca dell’armonia. In scena nell’ambito del 61esimo Festival dei Due Mondi.
Un incipit carnale, doloroso, cruento, quasi una performance di Hermann Nitsch, quel tagliarsi la lingua come rito di autoflagellazione, di mortificazione del corpo che è metafora della mortificazione dello spirito e dell’ingegno. Così Romeo Castellucci amplia la portata del suicidio di Empedocle, del filosofo rivoluzionario in grado, con le sue idee, di sovvertire la polis, e che per questo rappresenta una minaccia. Un po’ quello che accade alla Medea di Seneca, ma è fondamentale inquadrare il periodo in cui Hölderlin abbozzò il dramma: fra il 1798 e il 1800, ovvero all’indomani del fallimento della Rivoluzione francese, con l’astro di Napoleone che minacciava l’Europa. Empedocle è l’eroico vate che, in mezzo alle catastrofi morali, tenta, purtroppo invano, di riportare nella società l’unione di spirito e natura. Non ci riesce, ma in ambito romantico l’eroe è “bello di fama e di sventura”, e il martirio sembra l’unica via per quel ritorno all’indistinto Tutto cui l’uomo sempre anela e che solo la poesia può presagire. Nella regia di Castellucci, il luogo della ginnastica, la palestra, lascia così spazio alla rivelazione, esaltando lo scorrere retorico dei gesti e l’articolazione di versi che affermano la potenza della natura e ricordano la finitezza dell’umano. Esercizi e passi di danza divengono metafora della ricerca di quell’armonia del corpo che ha proporzioni matematiche.
L’AUSTERITÀ LUTERANA
Nato in una nobile famiglia di stretta osservanza religiosa (il padre era rettore di un convento, la madre figlia di un Pastore), Hölderlin assorbì il rigore della Riforma e divenne egli stesso Pastore, pur non esercitando mai la carica. Una formazione che lasciò echi profondi nella sua produzione letteraria, nella sua maniera di intendere l’esistenza. Castellucci ha mantenuto questo impianto di matrice simbolico-cristiana, accentuato dal costume delle attrici, che riproduce quello femminile tedesco del primo Ottocento, sobrio al limite della severità, adatto a una civiltà, quella luterana, che rigetta il superfluo, abituata a combattere e a soffrire, quando necessario, in nome di un’idea. Scegliere giovani attrici ha un duplice significato: il giovane è l’inattuale, colui che guarda avanti, che osa. La giovinezza di Hölderlin non è anagrafica, ma dello spirito. È giovane colui che riesce sempre a trovare stimoli per nuove sfide, che non perde mai il coraggio di lottare. Ma con la suggestiva scena finale e metaforica dei parti, Castellucci sottintende come la rinascita della civiltà sia affidata alle donne, a un Empedocle femmina che sappia rigenerare la civiltà.
Più che uno spettacolo, Giudizio. Possibilità. Essere lo si può definire un’azione scenica, una sincronizzata “esercitazione militare”, dove il coro femminile proclama l’amore per il maestro, esalta il divino e stigmatizza la massa.
LA PALESTRA METAFORA DELLA VITA
Intelligente e interessante la scelta di una palestra come inusuale luogo dell’azione scenica. Palestra intesa come luogo di combattimento, di addestramento del corpo (pensiamo a quelle dei gladiatori dell’antica Roma, o quelle dove si addestravano gli opliti ateniesi); ma erano palestre la camera di De Maistre, la sedia alla quale si legava Alfieri, la biblioteca dove Leopardi studiava in solitudine, l’agorà dove predicava Empedocle. Palestra come luogo di lotta; la stessa concezione che Hölderlin ha della poesia, stante la missione del poeta di riportare Dio e l’armonia fra l’umanità. In anticipo su Nietzsche di quasi un secolo, intuisce l’incombente solitudine dell’individuo; ma, bardo intriso di romanticismo mistico, ancora vede nella poesia una via di salvezza e di catarsi. Al prezzo più alto.
Uno spettacolo duro, disilluso, impietoso, che non fa sconti, dalla violenza quasi soreliana e dalla potente forza verbale di stampo alfieriano. La riflessione di Hölderlin è valida ancora oggi, per una civiltà resa asettica dall’ebbrezza della tecnologia, che non è un rigurgito del positivismo, bensì della società dello spettacolo; l’individuo contemporaneo è perso nell’ammirazione virtuale di se stesso, senza più contatti con gli altri
‒ Niccolò Lucarelli
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