Il corpo come archivio. Intervista al coreografo Marco D’Agostin
Parola all'artista, coreografo e performer Marco D'Agostin. In scena durante la38esima edizione di Drodesera, a Centrale Fies, con “Avalanche”.
Dal 20 al 28 luglio a Centrale Fies ha preso vita la 38esima edizione del Festival Drodesera dal titolo Supercontinent2, un vero e proprio sequel dell’edizione 2017 che rifletteva sulle pratiche nomadi legate alle migrazioni, all’esplorazione di luoghi esotici e alle discipline liminali.
Qui ci siamo addentrati nella Pangea esplorata dall’artista, coreografo e performer Marco D’Agostin, in scena con Avalanche.
Come nasce il progetto Avalanche?
Avalanche nasce da una domanda che non aveva trovato risposta nel mio lavoro precedente, Everything is ok. Mi interrogavo sulla natura e sulla forma che avrà il fossile umano quando tutto sarà andato distrutto. In questo caso ho trovato un filtro molto potente per affrontare la questione: l’archivio. Ho iniziato da subito una ricerca teorica e bibliografica sui temi che l’archivio porta con sé, è un territorio molto battuto sia da pensatori che da artisti visivi negli ultimi sessant’anni e più. Ho cercato di capire perché e come si archiviano le cose. Passaggi fondamentali sono stati Mal d’Archive di Jacques Derrida, ma anche Il sistema degli oggetti di Jean Baudrillard, e The Body as an Archive di André Lepecki, un saggio che centra in pieno la questione che più mi pertiene, cioè la possibilità del corpo di costituirsi come archivio di memoria. Questo terreno teorico si è poi incontrato con la postura emotivo-sentimentale che sempre assumo nel lavoro: l’archivio mette in campo una mia personale ossessione rispetto all’accumulo di cose e fatti, agli elenchi, alle liste. Da bambino amavo imparare a memoria le classifiche, gli insiemi di cose. A dieci anni ho mandato a memoria l’elenco di tutti i premi Oscar consegnati dal 1940!
Quali sono i tuoi riferimenti nel processo di creazione? Cosa prendi dal mondo (fisico e culturale?)
Maniacalmente tutto! [ride, N.d.R.]. L’archivio per sua definizione è un insieme di oggetti legati da un vincolo che stabilisce quali debbano esservi compresi e quali no, ma io credo che la necessità sottesa sia sempre quella di salvare tutto. In un momento di smarrimento nel processo di ricerca ho incontrato Gaia Clotilde Chernetich, esperta di danza e archiviazione di pratiche coreografiche che mi ha detto una cosa illuminante: qualsiasi studioso si imbatta nella questione dell’archivio a un certo punto prova una vertigine d’archivio, un fenomeno molto studiato che consiste nell’impossibilità di dare una forma alla propria relazione con una questione tanto complessa, con un insieme tanto complesso di oggetti. Con Teresa Silva, danzatrice in scena e parte attiva nel processo creativo, abbiamo costruito i nostri archivi affettivi, cumuli di cose che avremmo voluto salvare da un’ipotetica valanga. Questi archivi sono confluiti nel lavoro finale diventando sistemi di movimento, vocali e di pensiero.
Cosa significano per te “memoria” ed “estinzione”?
Una delle cose che più mi ha ispirato durante il mio studio è che esistono nel mondo luoghi in cui sono stati conservati dei blocchi di ghiaccio, provenienti da ghiacciai perenni, che conservano al loro interno polveri di migliaia di anni fa, utili agli studiosi per indagare il clima delle ere geologiche trascorse. Ecco! Ciò che mi interessa è la capacità di una specie o di un sapere umano di lasciare una traccia, che naturalmente è cosa diversa rispetto a ciò che era l’oggetto. L’origine però può essere sempre risvegliata da una traccia.
Per Avalanche ho lavorato sull’idea che si possa recuperare un sapere del corpo anche dalle vite che ci hanno preceduto. Non è un’osservazione New Age! [ride, N.d.R.] Sono una persona cinico-razionalista, ma ai fini della pratica coreografica e performativa mi piace pensare che noi conteniamo nel nostro DNA tutte le mobilità che sono state esperite prima di noi, e possiamo esercitarci nel ricordarle. Dietro tutto questo c’è la consapevolezza che il motivo per cui memorizziamo adesso è per essere equipaggiati per il futuro. La memoria per me è un modo di protrarre il più possibile il momento in non ci saremo più, ha sempre a che fare con la sparizione.
Questo forse si ricollega al tuo prossimo lavoro, First Love?
Ah sì! È un progetto sorprendente per come è nato. Anna Cremonini, direttrice del Torinodanza Festival, cercava dei coreografi che si occupassero di alcune immagini della montagna per restituirle in un processo creativo che scavalchi gli stereotipi, per il progetto Alcotra/Corpo Links Cluster, entro il quale First Love è co-prodotto e sostenuto. Mi ha contattato tratta in inganno dal titolo Avalanche, credendo fosse un lavoro sulla montagna. Nonostante non fosse così, ho colto l’occasione per risolvere finalmente un rebus: First Love sarà una sorta di risarcimento al mio primo amore, lo sci di fondo, che mi rendeva un ragazzino un po’ stranetto perché lo preferivo al calcio; il mio idolo di bambino era una donna, la campionessa olimpica Stefania Belmondo, anziché un uomo come ci si sarebbe aspettato. Ciò che allora produceva una distanza adesso diventa un’attestazione di orgoglio: quel primo amore aveva una ragione di esistere!
Il primo innamoramento, di qualsiasi natura esso sia, è sempre un fatto potentissimo, che però a distanza può sembrare ridicolo; mi piaceva l’idea di creare un lavoro che sia una celebrazione di quel ragazzino e del suo universo di riferimento, attraverso una rilettura di una gara delle Olimpiadi di Salt Lake City del 2002 vinta da Stefania Belmondo che ha profondamente segnato il mio immaginario.
Per i tuoi lavori sei stato prodotto sia in Italia che all’estero. Ci sono delle differenze di metodo?
È una questione molto complessa, che necessiterebbe di uno spazio altro. Quello che posso dire è che non è vero che in Italia non esiste un sistema, perché c’è e ha la sua morfologia, ma non mi pare favorisca il sostegno degli artisti sul lungo termine. Ci sono Paesi come la Francia che hanno articolato un sistema per le arti fondato su una visione del futuro, che è quello che manca qui, in questo momento storico, in molti settori. Se non esistessero il sistema produttivo e soprattutto distributivo di alcuni organismi esteri, io, come tanti altri artisti italiani, non potrei fare questo mestiere. In particolare ho un debito di riconoscenza nei confronti del festival Rencontres chorégraphiques de Seine-Saint-Denis di Parigi che ha coprodotto Avalanche, aveva sostenuto Everything is ok e si impegna nella produzione dei prossimi lavori, il CCN di Nantes, Claire Verlet che si occupa della programmazione di Le Théâtre de la Ville di Parigi, e poi due strutture residenziali dalle quali ho un sostegno a lungo termine: O Espaço do Tempo in Portogallo che, insieme a Centrale Fies, è per me il più bel luogo dove creare perché offre una condizione di isolamento ma allo stesso tempo di contaminazione molto intrigante, e infine la Tanzhaus di Zurigo.
‒ Dalila D’Amico
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