Serge-Aimé Coulibaly al Romaeuropa festival. L’intervista
Parola al coreografo del Burkina Faso che inaugurerà il Romaeuropa festival con un lavoro dedicato al dialogo e all’incontro fra culture.
Romaeuropa festival aprirà il 19 settembre con Kirina, lo spettacolo del coreografo Serge-Aimé Coulibaly (Burkina Faso, 1972), che segna l’incontro tra l’immaginario africano e quello occidentale. Un’opera per 9 danzatori, 1 attore, 4 musicisti, 2 cantanti e 40 figuranti nata dalla collaborazione tra il coreografo (già danzatore per Les Ballets C de la B di Alain Platel e fondatore della Faso Danse Théâtre), la cantante maliana, Rokia Traorè e lo studioso e scrittore Felwine Sarr (tra le altre cose, collaboratore di Macron). In scena al Teatro Argentina dal 19 al 22 settembre.
Kirina è il nome della località situata nell’odierno Mali dove si è svolta l’ultima battaglia da cui è nato l’impero del Mali nell’Africa occidentale. Hai parlato del tuo spettacolo come di una marcia, quella dei popoli che sin dalle origini della storia si spostano portando con sé affetti e cultura. “Le nostre società sono in perenne movimento, le popolazioni cambiano velocemente nelle grandi città e queste trasformazioni fanno parte di una grande marcia, quella dell’umanità”, hai affermato. Cosa diventa questa marcia sulla scena e cosa rappresenta nell’economia dello spettacolo e nella tua poetica?
L’idea dello spettacolo nasce tre anni fa, quando iracheni e siriani iniziavano ad arrivare in Europa, camminando giorni e giorni, attraversando la Bulgaria, la Grecia, la Turchia e trovando a un certo punto delle barriere a ostacolarli. Persone che fuggivano da una guerra creata da altri. Un mio amico storico studiava la Siria e viaggiava nelle città antiche, Palmira, Aleppo, a tale scopo, alla scoperta di queste civiltà che nel passato hanno fatto il progresso della civiltà. Sono i discendenti di queste civiltà che ora sono in marcia. Questo mi ha portato a riflettere sul fatto che nella storia c’è sempre un popolo in marcia da qualche parte del mondo.
Lo stesso vale per alcuni popoli africani oggi in marcia. Ecco, ho voluto ridare fierezza a questi popoli, raccontare di quando hanno fatto avanzare la civiltà.
Kirina è solo un simbolo per me, poiché a Kirina non c’è niente. Ci è stata solo questa battaglia storica. Evoca un immaginario di ricchezza e fierezza.
E tutta questa marcia è rappresentata in scena da 40 figuranti…
Esatto, nello spettacolo vi è una marcia continua, dall’inizio alla fine. Questo camminare che fa da sfondo. Sono importanti queste figure che passano perché il mondo ha la memoria corta. Oggi sono gli africani, i siriani ad arrivare in Europa, ma 40-50 anni fa erano i popoli europei, gli italiani ad esempio. Little Italy è dappertutto. Tutto dipende dal periodo storico, ma i popoli si sono sempre mossi verso un porto di speranza.
Questi figuranti quindi non sono solo africani, ho voluto anche dei bianchi e persone di diversa provenienza, per dimostrare che tutti i colori dell’umanità sono o possono essere in marcia. Oggi le città sono molto diverse da quarant’anni fa e testimoniano di un movimento globale dell’umanità.
E questo movimento coincide sempre con un incontro: in Kirina è quello dell’immaginario e della cultura africana che incontra l’immaginario e la cultura occidentale. In che modo? E cosa accade in questo incontro tra prospettive apparentemente lontane?
Il problema è politico. Poiché, quando pensiamo al nostro quotidiano, questo è caratterizzato dall’incontro di culture diverse, molte più di quanto crediamo. E queste culture convivono. Lo spettacolo è solo un pretesto per indagare l’altro, ma queste culture si sono incontrate molto tempo fa.
Poi è vero che c’è forse un problema di conoscenza approfondita di queste culture, in particolare di quella africana. L’Europa non guarda che a una piccola parte dell’Africa e ne conosce male la storia, la ricchezza culturale. E inoltre, guardandovi oggi solo attraverso la finestra dell’immigrazione, la conoscenza si appiattisce ancora di più. Basterebbe guardare in modo diverso per rendersi conto della vicinanza e della storia che l’Africa condivide con l’Europa. Certo, lo spettacolo parla di una parte del mondo, l’Africa dell’ovest. Sottolineo “parte del mondo” perché spesso si tende a escludere l’Africa dalla geografia mondiale. Come se l’Africa non avesse, inoltre, partecipato alla fama e allo splendore dei paesi occidentali, la Francia o altri. Nonostante i temi politici, Kirina è un’opera di finzione, di condivisione di emozioni. Ed è quindi importante che sia vissuta, esperita e condivisa da persone.
Forse mondi diversi si riconciliano all’interno di Kirina, sicuramente vi è un andirivieni tra passato e presente. Il paroliere, il “griot” o “testimone della Storia” porta in scena il presente e il futuro attraverso versi slam-rock. Quale è il suo ruolo nello spettacolo e tradizionalmente?
Nella creazione ho utilizzato e messo in valore la ricchezza della mia cultura. La parola è all’inizio e alla fine dello spettacolo. La storia è raccontata quindi da questa figura che attraversa il tempo. Il “griot” contemporaneo è il reporter, colui che è testimone e racconta a modo suo ciò che ha vissuto. Nello spettacolo non si tratta di un vero “griot”, poiché questo nome non identifica un ruolo, un mestiere, ma una “casta”, quella di coloro che detengono la memoria collettiva: si nasce griot, ma non lo si diventa. Si può essere altrimenti testimone della storia, paroliere ma non griot.
Riguardo al testo dello spettacolo, è stato scritto da Felwine Sarr, noto studioso ed economista africano, autore di Afrotopia, e braccio destro di Macron nell’operazione di restituzione delle opere africane ai Paesi colonizzati dalla Francia (operazione ancora in corso). Perché hai scelto di collaborare con lui? E in che modo Sarr ha lavorato sui testi?
Con Sarr ci eravamo incontrati diverse volte a tavole rotonde su temi che riguardano l’Africa e la gioventù africana. È stato Afrotopia lo spunto, poiché, attraverso questo libro, Sarr riesce ad apportare uno sguardo nuovo sull’Africa. Uno sguardo radicato nella cultura africana ma aperto all’internazionale, all’esterno, capace di abbracciare gli altri popoli, di apportare riferimenti che permettano il riconoscimento, nonostante le diversità.
Di Kirina volevo che restasse una traccia scritta, quella che non si chiama più libretto ma nota drammaturgica. Mi piacerebbe infatti che la storia a cui abbiamo dato vita oggi, utilizzando elementi del passato e del futuro, diventasse una narrazione accessibile a chiunque, di cui chiunque possa impossessarsi e reinterpretare, per un nuovo spettacolo o altro.
Sarr ha quindi apportato una sensibilità artistica, ma anche le sue doti di ricercatore e conoscitore della materia, per creare un testo che fosse riutilizzabile.
Le musiche dello spettacolo sono state composte dalla celebre musicista Rokia Traoré, che le interpreta in scena attraverso il canto. Si tratta di una delle icone della world music, a sua volta politicamente impegnata nella sua terra natia. In che modo Rokia è entrata a far parte di Kirina? Quale è stato il suo apporto?
Rokia Traoré la conoscevo da tempo. L’ho incontrata più di quattro anni fa, grazie allo spazio per giovani professionisti dello spettacolo che ho creato nella mia città in Burkina Faso. Anche Rokia ha dato vita a uno spazio multidisciplinare per concerti, residenze, studio della danza a Bamako. Un amico in comune ci ha fatto conoscere per questo motivo, siamo vicini e parliamo la stessa lingua, quella del popolo Mandingues. Ci siamo incontrati quindi su questo terreno di scambio, politico per un certo verso, un’attenzione alla gioventù africana e alle sorti del continente. Uno scambio che non è mai cessato e all’interno del quale rientra il progetto dello spettacolo, per il quale ha creato musica e testi che poi ha affidato ad altre due cantanti.
‒ Chiara Pirri
L’intervista fa parte dei programmi di sala del Romaeuropa festival.
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