Mondi distopici. Morau e Lidberg al festival Oriente Occidente
Il festival di Rovereto ha ospitato i lavori di due coreografi talentuosi: “Pasionaria” dello spagnolo Marcos Morau e “Siren” di Pontus Lidberg.
Convergono una moltitudine d’immagini. Sono rimandi e visioni di cinema, teatro, letteratura, pittura, fotografia. Dalle inquietanti atmosfere del cinema di David Lynch – e dentro un set cinematografico sembra svolgersi l’intera pièce –, a quelle iperrealistiche dei belgi Peeping Tom. Le fattezze di alcuni personaggi ricordano le bambole surrealiste di Hans Bellmer; altri le figure biomeccaniche imbottite di Oscar Schlemmer. Ritroviamo, anche, i segni fantascientifici del cinema di Kubrick nelle immagini astrali, di cieli e di pianeti che incombono fuori della grande vetrata che domina la scena – un vasto androne con scalone e due porte laterali che conducono non si sa dove – e che sembra collocarla in uno spazio galattico, fluttuante, alla deriva, o catapultata verso la terra. È un luogo comunque misterioso l’ambientazione di Pasionaria dello spagnolo Marcos Morau con la sua compagnia La Veronal, coreografo visionario ed eclettico, di grande estro creativo, che al festival Oriente Occidente di Rovereto (anche coproduttore), ha ricevuto un’entusiasmante accoglienza di pubblico. Meritata, perché lo spettacolo cattura dall’inizio alla fine. Partendo dal mondo reale e immergendoci in un’atmosfera sospesa, da vero thriller, Morau compie un viaggio nella psiche umana e nel suo subconscio, per parlarci del vuoto e della vera mancanza di passione nella nostra alienata società. Dentro una cornice di sottili neon la scena si apre con un uomo che ascolta della musica in cuffia mentre pulisce a terra con un aspirapolvere. Siamo dentro una casa, forse una clinica, una sala d’attesa o un istituto di ricerca. Ad animarlo è un lento via vai di personaggi strambi, una comunità di reclusi, figure solitarie, inespressive, alcune con maschere di lattice, alle prese con azioni quotidiane. Esse, tra tentativi di chiedere aiuto telefonando, o di uscire, si aggirano furtive, circospette, apparendo e scomparendo nella semioscurità della lunga scalinata, scivolando o scomponendosi con le braccia e le gambe sulla balaustra, entrando e uscendo dalle porte metalliche comandate da un codice d’ingresso che spesso non apre. Figure di operai, infermiere, domestiche, gente comune. Alcuni sono intenti, sembrerebbe, in traffici di neonati, o comunque in azioni losche considerando che clandestinamente portano via bambolotti, pile di scatoloni, e hanno torce elettriche in mano.
INQUIETUDINI E OSSESSIONI
Estranei l’uno all’altro si sfiorano, si osservano, cadono, si rialzano, sfilano veloci. Solo in qualche momento, tutti seduti su una lunga fila di poltrone frontali, con sventagliata di gambe, braccia e teste, danzano convulsi, poi all’unisono, in una stupefacente sincronia coreografica che ingloba la breakdance rendendoli simili a un ingranaggio meccanico. Transita una donna con la carrozzina, un tecnico per aggiustare un telefono al muro, degli operai con una scala, due lavavetri, due marziani, una donna incinta con la pancia luminosa, un’altra con grandi occhiali. Domina la penombra, a tratti una luce piena, stroboscopica, poi rossa, verde. Si sentono voci esterne, suoni di sirena, clangori, rumori di passi, musica classica, canzoni. Ci sono bizzarri assoli, duetti e terzetti di flessuose movenze, con pose stile popping e hip hop, di estrema precisione tecnica ed espressiva sulla musica remixata di Debussy e di Bach. Tutto questo per mostrarci, Morau, un mondo distopico, privo di passioni, di sentimenti, di umanità, e dirci il distacco emozionale e la disumanizzazione verso cui stiamo andando. Si muovono, infatti, con gesti robotici, meccanici, i magnifici interpreti di questa pièce di teatrodanza “fantascientifico”, di rarefatta astrazione, che, con una gestualità disarticolata, arti scomposti, movimenti reiterati e ironiche sequenze danzate da comiche di cinema muto, esprimono paure e desideri, solitudini e ossessioni. E il vuoto esistenziale. Ed è ulteriormente inquietante, sul volgere del finale, l’entrata di figure amorfe con più gambe e braccia, che si dimenano come mostriciattoli di chissà quale aberrante esperimento genetico. Che si chiude con la scena iniziale del domestico fumante e stramazzato a terra, come un robot rotto che ha smesso di funzionare.
SIRENE E DERIVE
Un diverso approccio alla visione di un’umanità alla deriva, e di esplorazione della profondità della psiche, è quello di Siren di Pontus Lidberg, creazione in prima assoluta a Oriente Occidente. “Nella nostra società” – spiega il coreografo, danzatore, regista e videomaker svedese – “ogni cosa è soggetta al cambiamento continuo, non ultima la stessa definizione di cambiamento. La sfida delle relazioni interpersonali, della comunicazione, l’isolamento imposto dai social media che guidano le sorti del mondo, la fluidità di genere”.
Direttore artistico del Danish Dance Theater, formatosi alla tradizionalissima Royal Swedish Ballet School, coreografo di più di quaranta lavori per le più importanti compagnie del mondo, Lidberg, insieme al drammaturgo Adrian Silver, prende spunto dal mito omerico delle sirene ammaliatrici che tentarono Ulisse e la sua ciurma, ma senza rimandare direttamente al mito, né a voler narrare alcuna storia. Volendo esprimere i temi del desiderio, della creatività e della solitudine, Lidberg immerge i sette danzatori, incluso lui stesso e l’unica presenza femminile, la tailandese Sarawanee Tanatanit, in una danza liquida, sinuosa, che sconfina in valzer, e con scambi di tenerezze in nome di quella mutabilità di amori cui si accennava; danza a tratti vigorosa ed energica nelle arcuate movenze maschili di gruppi e di duetti. L’inizio, con la donna-sirena fluttuante dentro una grande teca d’acqua, poi creatura sensuale che scatena turbamenti e scompiglia le identità vestendo lei stessa abiti maschili, faceva presagire sviluppi spettacolari e visioni accattivanti. Così non è stato. Sulle musiche originali di Stefan Levin e la Sonata n.18 di Franz Schubert, la coreografia, piuttosto convenzionale nel vocabolario di movimenti, di turbinii e salti, di rotazioni a terra, di entrate e uscite, ha poche punte di originalità, escluso l’intenso duetto sulla musica di Schubert tra il biondo Pontus e la sirena dalle lunghe chiome; e scontati sono risultati anche gli appigli scenografici: un vasto telo che da onda marina si trasforma in vela, in mantello, in nuvola, e in schermo sospeso per proiezioni di disegni animati di occhi, di tempeste, isole, uccelli, pesci, e di animali dalle sembianze maialesche ‒ fattezze riprese da maschere indossate dai danzatori ‒ in riferimento al racconto omerico. Il finale, con l’uomo immerso nell’acquario, dice il rovesciamento dei ruoli, la trasformazione dei corpi, il varco dei confini.
‒ Giuseppe Distefano
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