Danza, memoria e pop. Intervista a Louise Lecavalier
Parola all’icona mondiale della danza contemporanea che ha girato il mondo con David Bowie, a Milano per MilanOltre Festival.
Una donna bellissima dal fascino discreto, capace di ipnotizzare il pubblico con la sua danza, come ha dimostrato la standing ovation per “I” is Memory, sua produzione presentata al Festival MilanOltre 2018. Louise Lecavalier, classe 1958, è un pilastro della danza contemporanea, ma è famosa anche per aver lavorato e vissuto a stretto contatto con icone del pop del calibro di David Bowie e Frank Zappa. Famosissimi, ricchissimi e costantemente in tour: sesso droga e rock ’n’ roll? Assolutamente no: Louise Lecavalier ci racconta con la sua estrema delicatezza il dietro le quinte di una coreografa che ha fatto la storia della danza contemporanea.
“I” is Memory è un caso unico nella tua carriera: un solo di 45 minuti coreografato nel 2006 da Benoît Lachambre, decisamente lontano dalla tua danza, fatta di velocità e virtuosismi. Raccontaci di questo spettacolo.
Nel 2006 sono stata operata a un’anca: l’infortunio era piuttosto serio e mi ha costretta a rivedere delle cose. Da quel momento ho capito di non poter più creare la danza esplorando con il mio corpo i movimenti più estremi e difficili, spingendomi sempre al limite. Per la prima volta mi sono fermata a pensare in anticipo a ciò che potevo e a ciò che non potevo fare, in questo mi ha aiutato un amico, Benoît Lachambre [un altro pilastro della coreografia canadese, N.d.R.], che ha creato su di me questo solo estremamente lento: per me rappresenta una calma rinascita, una dimensione diversa dello stare in scena che mi ha permesso di esplorare fino in fondo una nuova qualità di movimento, trovando un personaggio che è contemporaneamente molto presente e attento a come agire e molto assente, come appena atterrato da un altro pianeta.
Il titolo è molto forte: che cosa significa?
“I” is Memory è il titolo di un album composto da Laurent Maslé. L’ho scelto quando il solo era già creato perché sentivo che riassumeva le emozioni che provavo mentre lo interpretavo: non va inteso come “io che ricordo di quando potevo muovermi al meglio delle mie possibilità”, piuttosto come il momento in cui il personaggio del solo si trova a dover imparare di nuovo a camminare, attingendo dalla memoria quella specifica sensazione: da lì si interroga su temi più ampi, l’“io” del titolo diventa “noi”. Come noi umani possiamo imparare un nuovo modo di stare al mondo?
Questo lavoro suona quasi come un testamento, anche se porti ancora in tour spettacoli come Battleground, nel quale il virtuosismo si spinge quasi all’impossibile. Da danzatrice per la quale la tecnica è sempre stata parte essenziale della cifra stilistica, ti poni spesso domande sul futuro della tua carriera?
Non sono mai stata molto brava con il futuro, non ho mai fatto piani a lungo termine nemmeno quando avevo vent’anni: quando ho iniziato a ballare ho pensato che sarebbe durato un solo anno! Non mi creo mai delle aspettative o dei punti di arrivo nel mio lavoro, ogni volta che inizio qualcosa di nuovo vivo il momento senza sapere se sarà l’ultimo o se andrò avanti per altri cento anni. Quando mi trovo in sala per una nuova creazione non ho idea di dove arriverò con essa, lo capisco iniziando a esplorarla, mai in anticipo. Finché potrò fare il mio lavoro andrò avanti a farlo, quando capirò che non potrò andare oltre sarà il momento di trovare una nuova strada.
Facciamo un tuffo nel passato: che ricordi associ al periodo in cui eri la firma della compagnia La La La Human Steps, quando giravi il mondo a fianco di artisti del calibro di David Bowie, Frank Zappa, Einsturzende Neubaten…?
È stato un periodo di incontri meravigliosi, ma molto diversi fra loro: ho conosciuto Frank Zappa quando era già molto malato, ho danzato sulle sue note poco prima che morisse. Lui adorava il mio lavoro e questo mi appagava moltissimo, ho un ricordo di lui così prezioso e fragile: rimpiango solo di aver avuto troppo poco tempo per conoscerlo personalmente. David Bowie invece l’ho conosciuto quando era nel fiore dei suoi anni: era un uomo bellissimo e pieno di carisma. Abbiamo danzato insieme in un duetto e ho coreografato per lui svariati tour. In realtà non è stata l’esperienza più appagante della mia vita artistica, perché in quel periodo non ho approfondito molto la danza e la coreografia in senso stretto, usavamo spesso materiale di anni prima o di altri coreografi della compagnia. Un incontro bellissimo, ma un compito piuttosto semplice, lavorativamente parlando. Bowie poi aveva uno charme decisamente ingombrante, a volte non trovavo per nulla facile stargli vicino!
Durante queste collaborazioni veniva rispettato lo stereotipo del tour “sesso, droga e rock’n’roll”?
Oh no, non proprio! Quando lavoravamo insieme non faceva più un grande uso di droghe…oddio forse usava qualcos’altro, non saprei! In ogni caso aveva abitudini piuttosto tranquille, usciva poco e lavorava moltissimo.
Il tuo percorso nella danza contemporanea deve averti aiutato moltissimo a lavorare in un ambiente pop di quel calibro: da dove hai iniziato? Quando ballavi in camera tua che musica ascoltavi?
Fin dai primi anni di danza mi sono dedicata al contemporaneo. Ho avuto un breve percorso di studi di balletto ma ho capito subito che non poteva essere il mio mondo: la danza classica non mi dava la possibilità di diventare la donna che volevo essere, di lavorare su me stessa. Dovevo piuttosto nascondere la mia personalità dietro i canoni della ballerina: perfetta, delicata, eterea. Sentivo una costrizione troppo forte per proseguire la mia carriera in quell’ambiente, mentre quando ho scoperto la danza contemporanea ho subito sentito la vita e la verità, quindi da lì sono partita per trovare me stessa. Da ragazzina ascoltavo tantissimi generi musicali, mi piaceva davvero tutto, ma per danzare in cameretta ho sempre adorato la musica contemporanea utilizzata nelle classi, soprattutto quelle usate da Merce Cunningham. La danza contemporanea mi ha aiutato a formare la mia personalità e mi ha permesso di esprimermi nel corso di tutta la vita senza mai correre il rischio di terminare il terreno di esplorazione: ogni volta che entro in sala, soprattutto oggi dopo quarant’anni di esperienza, mi dimentico di quello che ho fatto prima. Provo a dimenticarmi addirittura di chi sono: ripartendo ogni volta da zero, anche se per gioco, è inevitabile trovare nuove strade, nuove ricerche, nuove emozioni.
– Giada Vailati
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