Teatro e risonanza. Intervista a Peter Brook
In arrivo al Romaeuropa Festival con “The Prisoner”, il regista britannico racconta le genesi dell’opera e chiarisce il suo approccio al teatro.
Dopo più di settant’anni di carriera, un’adesione sempre rinnovata ed essenziale all’arte teatrale anima l’opera di Peter Brook (Londra, 1925), divenuta mitica (ma non metodica) nel panorama delle pratiche e delle teorie della scena. Al centro della sua ricerca, lo studio della presenza nello spazio scenico, la parola come “risonanza” che non si ripete mai uguale a se stessa. In The prisoner, nuova pièce scritta e diretta da Brook e Marie-Hélène Estienne, questioni sulla natura umana e i suoi limiti vengono convocate con leggerezza e precisione dai cinque attori, nel tempo sospeso di un’attesa.
Lo spettacolo andrà in scena al teatro Vittoria per il Romaeuropa Festival, dall’11 al 20 ottobre.
Seduti nella sua casa parigina, Peter Brook ci ha raccontato le storie all’origine di questo suo ultimo lavoro, e risposto ad alcune domande su autori e attori del suo teatro.
“Un uomo siede da solo davanti a un’enorme prigione in un paesaggio desertico. Chi è? E perché si trova in questo luogo?”. The prisoner è uno spettacolo costruito intorno a delle domande. Quelle di Mavuso, del viaggiatore, di Diane, dei passanti… a cui si aggiungono inevitabilmente i quesiti del pubblico, in un moto spiroidale. C’è una domanda che racchiude tutte le domande all’origine dello spettacolo?
Il punto di partenza è un’esperienza che ho vissuto personalmente, e che ho raccontato anche nel mio libro I fili del tempo. Ero in Afghanistan, quando incontrai l’uomo a cui poi nello spettacolo ho dato il nome di Ezechiele. Quest’uomo m’invitò, con insistenza, ma senza alcuna spiegazione, ad andare a far visita a un suo allievo, colpevole di un crimine impronunciabile. Andai dunque a cercare questo giovane e lo trovai seduto, immobile, all’aperto, di fronte a un’enorme prigione. Scambiai con lui qualche parola, mi offrì del cibo che non ebbi il coraggio di accettare. Rimasi con lui per un po’. Tante erano le domande che avrei voluto porgli, ma una su tutte: quale colpa hai commesso per meritare una tale punizione? Ma non osai fare né questa, né altre domande. Non ho mai più rivisto quell’uomo, ma la domanda è rimasta viva in me per tutti questi anni.
Tra le parole che ritornano in The prisoner ci sono: colpa, punizione, liberazione, pace, perdono, ma anche amore e odio. Questo campo semantico sembra suggerire che la prigione non sia solo un limite concreto, ma soprattutto un fardello che l’umanità porta dentro di sé.
Siamo abituati ad associare la parola “delitto” alla parola “castigo”, ma è raro sentire parlare di “redenzione”. Le carceri sono dei luoghi terribili, che distruggono le persone senza essere in grado di accompagnare il colpevole lungo un percorso che lo porti alla liberazione. Ognuno è in fondo prigioniero a modo suo. A questo proposito ho un’altra storia da raccontare.
Di cosa si tratta?
Circa cinquant’anni fa, in Australia, ho incontrato una comunità stabile di aborigeni. Lì mi è stata riferita la vicenda di un uomo che molto tempo prima aveva commesso un crimine. Per questo motivo, come era uso fare con i colpevoli di un grave delitto, era stato sottoposto a delle mutilazioni alle gambe. Era stato poi portato sulla cima di una collina e lì abbandonato in solitudine. Secondo la loro usanza, se il prigioniero riusciva a sopravvivere, nutrendosi di quello che trovava e guarendo dalle ferite, poteva tornare al villaggio. Quest’uomo riuscì a rimanere vivo nutrendosi di bacche e radici e poco a poco riuscì a sanare le ferite e riacquisire mobilità e forza nelle gambe. Allora s’incamminò giù per la collina. Raggiunse il villaggio all’ora del pasto, quando tutti erano intenti nei preparativi. Quando lo videro arrivare da lontano, allargarono il cerchio per fargli spazio, lasciandogli quello che era stato il suo posto abituale. Superata la prova, l’uomo aveva raggiunto la redenzione e quindi ottenuto il perdono: poteva recuperare il suo posto nella società.
The prisoner porta in scena una storia senza tempo, che accade in uno “spazio vuoto”, ossia lo spazio del teatro. Nel suo libro La porta aperta, il teatro è descritto come l’arte che “rende passato e futuro parti del presente, ci dà una distanza da quello che normalmente ci sta intorno e abolisce la distanza fra noi e ciò che di solito è lontano”. In che modo questa storia senza tempo parla al presente?
Il ruolo del teatro non è quello di dare lezioni. Il regista non deve inculcare delle idee nella testa del pubblico. Quello che chiamiamo pubblico è una comunità composta da singoli individui, ognuno dei quali a teatro vive un’esperienza personale, che nasce dalla relazione diretta con gli attori e con ciò che accade sulla scena. Ogni spettatore ha uno sguardo diverso sullo spettacolo, se ne nutre in modo diverso. Quello che conta sono le domande che si pone una volta uscito dalla sala. Ma non mi permetterei mai di chiedere a uno spettatore che domande si è posto guardando The prisoner, è una questione privata. Non mi interessano i dibattiti a fine spettacolo, e credo che ognuno abbia bisogno di un tempo di elaborazione. Di uscire, camminare e pensare. Il teatro è un viaggio, che ci porta da un punto a un altro, attraverso un percorso che è insieme condiviso e individuale.
E cosa bisogna portare con sé in questo viaggio?
Io non ho un metodo, non ho mai creato una scuola come hanno fatto tanti altri registi miei coetanei e più giovani. Credo che ogni attore debba trovare la sua strada, trovarla dentro di sé. Il teatro vive nel tempo presente, nello scambio che si crea attraverso il dialogo.
Il dialogo è presente in ogni fase della creazione, a partire dal suo lavoro comune con Marie-Hélène Estienne, cominciato nel 1976.
Marie-Hélène ha iniziato a collaborare con me come assistente. Il nostro lavoro comune è evoluto in maniera naturale. Ha un dono per il casting ed è bravissima a lavorare con gli attori. È lei che ha trovato molti degli attori con cui abbiamo lavorato negli anni. In seguito è diventata la mia collaboratrice, in particolare per la scrittura dei testi. Fino a che, a un certo punto, dopo anni di lavoro quasi telepatico tra noi, ho capito che poteva spingersi più lontano, e volevo che il suo lavoro fosse riconosciuto alla stregua del mio. Ho insistito quindi affinché nei programmi il suo nome fosse scritto accanto al mio, che fossimo riconosciuti come co-autori e registi degli spettacoli.
Lo spettacolo nasce da una serie di atelier che avete diretto in Francia e all’estero. Come sono stati costruiti? Che scambio si è instaurato tra voi e i partecipanti?
Gli atelier sono alla base della nostra ricerca per uno spettacolo, e ci permettono di incontrare nuovi attori. Li preferiamo alle audizioni, un’audizione è sempre una delusione per chi non è selezionato, invece un laboratorio è un’esperienza viva, qualcosa da cui imparare e di cui mantenere un bel ricordo. Grazie a questi atelier abbiamo incontrato molti attori di nazionalità diverse, e lo scambio è stato molto positivo. Ci siamo resi conto che i temi affrontati dallo spettacolo, come quelli della punizione o dell’incesto, sono temi universali che appartengono alle diverse culture e al tempo presente molto più di quanto avessimo creduto. Sono presenti nel teatro fin dalla tragedia greca e restano sempre attuali. Il lavoro collettivo durante i laboratori è molto importante anche per Marie-Hélène, indispensabile per nutrire la sua scrittura.
Pensando alle scritture con cui ha lavorato principalmente, quella di Shakespeare soprattutto, ma anche quella di Čechov e di Beckett, qual è il ruolo che ha il testo sulla sua scena?
Ho collaborato a lungo con lo sceneggiatore cinematografico Jean-Claude Carrière. Proprio in quanto sceneggiatore, Jean-Claude era abituato a lavorare in concertazione con l’équipe a favore della resa finale. L’autore di teatro, invece, in passato era rispettato come fosse l’unico possessore della verità del testo. L’attore, in questo contesto, e con una vanità un po’ ipocrita, si proclamava al servizio dell’autore. Molti autori teatrali scrivono anche oggi per “esprimersi”, per mostrare al mondo la propria visione, politica o quant’altro. Rari sono invece gli autori che creano pensando all’attore, affinché una realtà umana possa manifestarsi in scena. Per questo nella mia carriera ho raramente lavorato con gli autori teatrali alla moda, e ho preferito invece lavorare con Shakespeare. Mi sono però sempre rifiutato di partecipare alle assurde discussioni su chi fosse davvero William Shakespeare: è una questione irrisolvibile, l’unica cosa che conta è che esistono trentasei opere teatrali eccezionali, capaci di contenere tutti gli aspetti della vita umana, da quelli più volgari e ordinari alle questioni filosofiche.
Che significato ha l’opera di Shakespeare per lei?
Ne La qualità del perdono, il mio ultimo libro, parlo molto di Shakespeare. La sua opera è per me è come un grattacielo: c’è lo scantinato, umido e sordido, si procede per piani fino ad arrivare all’ultimo, da dove si accede a un piccolo balcone aperto sul cielo. Nell’opera di Shakespeare si possono trovare tutti questi livelli in un solo edificio. Ogni sua pièce è dunque un tesoro umano. Non a caso è il solo autore che ha attraversato tutto il mondo, tradotto in tutte le lingue. Per me, questo è l’inesauribile.
E per quanto riguarda Čechov?
Nella stessa categoria molto speciale di autori c’è Anton Čechov. Čechov non era un professionista, non scriveva per mestiere. Era un medico di campagna e, come tutti i medici di campagna, non attendeva l’acuirsi della malattia per visitare le persone, ma si recava generosamente a casa dei malati, passava del tempo con loro, circondato dai familiari. E così, facendo il possibile per salvare la vita della gente, ha imparato a conoscere tutte le sfumature di quello che è una famiglia umana. Con la sua scrittura si è fatto portavoce di quello che aveva imparato sul campo. Ritrovo queste caratteristiche, anche se in un’altra maniera, in Samuel Beckett, autore capace di immaginare meccanismi e strutture straordinarie perché una verità umana fuoriesca dal testo, senza imporre alcuna idea prestabilita del mondo.
Una particolare qualità ritmica e sonora accomuna, anche se declinata diversamente in ognuna di esse, queste scritture?
La parola chiave è per me “risonanza”, e ha a che fare con la qualità del testo e con il rapporto dell’attore con il testo. Quando un autore è realmente alla ricerca, fa un lavoro di sottrazione, lascia cadere molte parole fino quando non trova qualcosa. Nessuna sua frase resta così chiusa in se stessa ma nasconde una risonanza. E un buon attore, un attore sensibile, è una cassa di risonanza: è in grado di lasciar entrare in sé il testo, di lasciarlo risuonare per poi passare dalla bocca. Quando un attore è in grado di riconoscere questa risonanza, sa bene che, nonostante le apparenze, ogni volta che recita uno stesso brano non sarà mai una ripetizione, ma una nuova scoperta. Per l’attore e per il regista una scrittura che contiene questa capacità di risuonare è un terreno sempre nuovo da esplorare. Ma se una scrittura non ha questa qualità, al regista non resta che montare un’opera per far piacere al pubblico, scegliere la migliore carta da parati, le tende, le sedie e i sofà, fare insomma il decoratore d’interni!
‒ Alessandra Cava e Chiara Pirri
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