Il Macbeth di Lenz tra migliaia di grilli
Insieme alle voci verdiane, il frinire di migliaia di insetti vivi costituisce il materiale sonoro della nuova sperimentazione sull’opera di Shakespeare e di Verdi da parte di Lenz Fondazione.
Nessuna retorica eroica in questo Macbeth da Verdi e Shakespeare. Nessuna dissertazione sul potere. Né sul Male. È tutta racchiusa nella tematica dell’ineluttabilità del ciclo morte-vita la nuova tappa di Lenz Fondazione. Nel precedente Macbeth un enorme parallelepipedo-monolite diventava corpo pulsante di parole, volti, luoghi, che attraeva ed espelleva la fisicità di Lady Macbeth. In questa nuova opera scenica e musicale – creata su commissione del Festival Verdi 2018 di Parma – dal titolo Verdi Macbeth. Dramma fantastico e vero, con sorprendente immaginazione Maria Federica Maestri e Francesco Pititto hanno dato corpo all’universo notturno e onirico dell’opera shakespeariana e verdiana ideando un’installazione che sollecita e invade visivamente, olfattivamente e sonoramente lo spazio della grande Sala Majakovskij di Lenz: ventiquattro terrari verticali popolati da migliaia di grilli.
“L’ho fatto io, il fatto. Ho udito io il gufo urlare e i grilli lacrimare”, dice Lady Macbeth sentenziando l’impossibilità del sonno: “Credo d’aver sentito: Sonno non più! Macbeth ha ucciso il Sonno, l’innocente Sonno. Il Sonno che guarisce, la morte della vita di ogni giorno”. E quel frinire continuo in sottofondo, richiamo sessuale ma anche lamento, diventa condanna di una veglia perpetua per la colpa da espiare. A dare senso all’indelebile assillo della mente non sono più le mani insanguinate della Lady strofinate per cancellare le macchie del delitto, ma, nel gesto iniziale con cui ella entra in scena, è il suono del picchiettare insistente sulle teche di vetro per far cadere gli insetti dalle pareti. Con i grilli vivi e altri morti in scena “la natura entra nel disegno installativo come un principio orrorifico, al contempo fantastico e reale”, spiega la regista.
CAMALEONTI E FANTASMI
Sdoppiata in due ‒ il soprano Roxana Herrera Diaz e l’attrice Sandra Soncini ‒, Lady Macbeth è anche simboleggiata da un camaleonte, animale imperturbabile che tutto vede, attrae e fagocita. L’animale è chiuso dentro una teca collocata al centro dei terrari, i quali, disposti geometricamente, riproducono l’antico santuario dedicato al culto di Hecate, dea delle ombre e dei fantasmi notturni, della magia e degli incantesimi. Dagli intercali delle colonne, seduto fuori dal perimetro e col pubblico distribuito attorno, entra ed esce il coro musicale i cui componenti, dopo aver tolto dei passamontagna, diventano le streghe barbute che profetizzano. Con indosso kilt funerei, le loro note verdiane si mescolano al canto di Banquo – il basso Eugenio Maria Degiacomi ‒, a quello del coro del Teatro Regio di Parma proiettato in video, e a quello dei grilli. Formano così un insieme di umani e invertebrati in un unico coro, il cui canto risuona a morto. E di grilli morti è pieno uno dei cippi, le cui carcasse vengono prese e distribuite dalle Lady sugli altri cippi spostati a invadere la scena. Per tutto il tempo il tormento e la paura aleggiano in Macbeth ‒ che ha la voce e la fisicità del baritono coreano Hyunwoo Cesare Kwon ‒, facendolo infine regredire mentalmente fino a renderlo infantile: come quando indossa un berretto, ride, tira fuori la lingua o batte le mani mentre apre la vetrina addossando il viso verso il camaleonte, quasi in un gioco di cui non conosce il pericolo.
VITA E OMBRE
In un’atmosfera sonnambolica di penombra solo a tratti rischiarata, echeggiano versi, movimenti e azioni – c’è anche un rituale di adagiamento e allineamento di ciuffi di lattuga (cibo per i grilli) ai piedi di Macbeth, intento a sfrondarla e mangiarla insieme alla consorte – che alterano il corso della storia e fanno dire parole ribaltando i ruoli. Non è più Macbeth, infatti, a dire: “La vita è solo un’ombra, un’ombra e va…”, bensì la moglie, che, salita su un piedistallo, prosegue: “… una povera attrice che sgambetta la sua ora e poi più niente. È un romanzo scritto e detto da un demente, pieno di furia e suono significante il Niente”. Ancor prima, dopo aver rinnegato l’essenza della propria femminilità per farsi artefice del destino del suo uomo, in una sequenza convulsa, piegata di spalle, col seno scoperto e l’agitare della lunga chioma, sempre lei, ripetendo forsennatamente “Resisti, resisti!”, ingaggia una lotta che è danza di tutti i muscoli, di energia tribale, di potente impotenza con se stessa e col mondo, con quella natura crudele che voleva dominare. E ci ricorda, senza finzione, che la vita è davvero un’ombra che cammina.
‒ Giuseppe Distefano
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